Il testo si intreccia con la musica, la danza, il canto. E l’arte diventa passaggio nella cura, aiutando a riportare la follia a far parte della vita e a non catalogarla solo come malattia, con conseguente stigma. In occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale del 10 ottobre, a Palermo la Fondazione Tommaso Dragotto ha organizzato una manifestazione che durerà tutto il giorno e che vedrà alternarsi incontri medico-scientifici a spettacoli ad ingresso gratuito.
Alle 18.30 al Real Teatro Santa Cecilia avrà luogo l’originale messa in scena dell’Accademia della Follia “Claudio Misculin” dal titolo “Quelli di Basaglia…. A 180°” di Angela Pianca e Antonella Carlucci che ne firma la regia. Lo spettacolo celebra la rivoluzione psichiatrica di Franco Basaglia attraverso testi, interviste, poesie e testimonianze proprio di Basaglia, dei basagliani e dei matti. E quelle pronunciate saranno le “parole riconquistate” da chi ha vissuto questa esperienza sulla propria pelle.
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L’arte come strumento
“Partiamo dai fondamentali e dal titolo: faccio fatica ad esprimere osservazioni che vadano in un approccio a mio avviso divisivo e di genere: per me in assoluto ed anche e soprattutto in questo contesto in cui opero, esistono le persone; con i generi che si sentono propri. – spiega Antonella Carlucci Ho sempre preferito eludere il concetto del “dividi et impera”.
Detto questo le donne certamente hanno un potenziale maggiore verso l’osservazione globale, l’accoglienza. la cura e la sensibilità: questo però è un potenziale mica una certezza”.
Il modello dell’Accademia della Follia, in questo senso, è davvero unico. Si tratta di una compagnia teatrale, ma anche e soprattutto di una comunità artistica nata dentro la scia della rivoluzione basagliana.
Trieste è la città dove Franco Basaglia ha abolito i manicomi e ha restituito ai “matti” la libertà e la dignità. L’Accademia nasce dentro quella visione: fare arte non sulla follia, ma con la follia. “Oggi sono regista e responsabile del laboratorio teatrale – riprende Carlucci. Mi occupo della formazione e della creazione di spettacoli con persone che vivono o hanno vissuto un’esperienza di disagio psichico. Il teatro diventa uno spazio dove corpo, voce, fragilità e bellezza possono convivere”.
L’arte è terapia
A fianco dell’approccio artistico, quindi, c’è anche l’impegno politico. Lo conferma la stessa Carlucci. “Uso lo strumento artistico e teatrale in spazi “al margine”: persone con disagio psichico, fisico, sociale; situazioni di rischio, marginalità. Il teatro per me non è solo scena, è pratica che trasforma, che “cura”, che restituisce voce e presenza a chi è spesso escluso”.
Insomma, parliamo di una cura che non prescrive farmaci, ma invita alla presenza, alla relazione. In scena, nessuno è “malato”: siamo solo persone, che finalmente si esprimono senza paura, che cercano un modo per dire il mondo.
“Per molte delle nostre attrici e attori il palco è il primo spazio dove poter essere viste e visti senza l’ombra nera della diagnosi, dello stigma, senza etichette della malattia – riprende Carlucci.
Il nostro è un teatro impegnato, con un forte senso della testimonianza, della storia (anche della storia della psichiatria, dell’istituzione manicomiale, delle lotte basagliane), delle disuguaglianze, dell’“altro” che la società rimuove o abbandona. Le mie forme artistiche cercano di esplicitare che il fare teatro in questi contesti è già di per sé un atto politico: non semplicemente rivendicativo, ma generativo di mutamento nei rapporti, nei pregiudizi, nella percezione collettiva.
La sfida che questo teatro ha affrontato da sempre e che io sono fiera vedere accadere ancora oggi e sentirmi chiedere dopo aver visto lo spettacolo se siano tutti matti oppure no. Ecco qui comincia anzi continua e si evolve la nostra vittoria e le rivoluzioni delle coscienze”.
Il ruolo fondamentale della donna e come l’arte può aiutare
“Le donne nella storia tutta e quindi anche nella storia manicomiale e nella malattia mentale, pagano un prezzo doppio – annota la regista. Spesso vivono storie di violenza, di controllo, di silenzio. Hanno interiorizzato lo stigma, la vergogna. Si portano addosso anni di sguardi che le hanno ridotte al loro disturbo. L’arte restituisce loro la voce. Con il teatro possono riscrivere la propria storia”.
Ricerche recenti, ad esempio quelle pubblicate su Human Reproduction e sul Journal of Women’s Mental Health, mostrano che l’art therapy può migliorare autostima, espressione emotiva e ridurre ansia e depressione nelle donne. Un esperimento del 2024 su donne con depressione moderata ha dimostrato che sei sessioni di arte visiva hanno aumentato significativamente il senso di valore personale. E nei percorsi di gravidanza e postpartum, l’arte – musica, danza, pittura – ha effetti misurabili nel ridurre l’ansia.
“Però oltre ai dati c’è l’esperienza vissuta: vedere una donna che entra in laboratorio con lo sguardo spento e dopo poche settimane recita con voce forte, si veste di colori, ride – rileva Carlucci. Quella trasformazione non si misura con i numeri, ma è reale”.
La persona al centro
L’importante, in ogni caso, è sempre partire dalle persone. “Essendo un nostro un laboratorio permanente e vedendoci tutti i giorni dalle 10 alle 13 condividiamo le nostre vite, quindi anzitutto è relazione. Nessuno viene “diretto” in senso tradizionale: c’è un progetto teatrale, una storia da raccontare e corpi che hanno desiderio di agire; all’interno di questo impianto preferisco dare molto ascolto a quelli che sono i loro contributi, affinandoli certamente con l’occhio esterno.
Nel laboratorio esploriamo la voce, il movimento, il respiro, la presenza. Il corpo è la prima parola: e per questo è fondamentale; proprio perché spesso il corpo è stato negato, ferito o messo a tacere. Sul palco il corpo torna a essere casa, non prigione”.
Ultima curiosità: come risponde il pubblico di fronte a queste persone sul palco? “All’inizio c’è curiosità, a volte imbarazzo – conclude Carlucci. Poi accade qualcosa di magico: il pubblico si dimentica del disagio psichico. Vede attrici, attori, vede emozione, ironia, vita vera. E quella è la vittoria più grande, perché significa che l’arte ha superato la diagnosi. Uno spettacolo come “Quelli di Basaglia… a 180°” non è solo teatro: è memoria, è politica, è civiltà. Ci ricorda che la libertà non si conquista una volta per tutte, ma va praticata, anche con la follia. La follia è solo un modo radicale di essere umani. Il teatro serve proprio a canalizzarla, a farne linguaggio, non vergogna”.