Poeta, cantautore, scrittore, … è difficile trovare una definizione per Gio Evan, in radio col brano Turno di notte, a ottobre a teatro con lo spettacolo L’affine del mondo, in libreria con Le chiamava persone medicina e sul palco del concerto del primo maggio.
Il suo nome, Gio Evan, proviene da lontano e gli ha cambiato la vita, la sua poesia trascende lui che l’ha scritta e diviene materia fluida, per tutti.
Cominciamo dal tuo nuovo brano Turno di notte: ci racconti il significato di questo titolo?
Turno di notte nasce dall’insonnia e dal momento in cui poeti e scrittori si mettono all’opera. La notte mi è sempre sembrata romantica, popolata da custodi come il panettiere o il metronotte: persone che vivono segreti che i festaioli nemmeno sfiorano.
Come è nato questo brano, che definisci “di perdite imperdibili”?
Chi viaggia molto, come me, impara presto il verbo “perdere”: treni, amici, paesaggi, amori. È una parola cara, che celebriamo con gratitudine. Questo brano è un modo per immortalare tutto ciò che passa, dalla perdita di mia madre alla vecchiaia di mio padre, come in una grande foto di famiglia.
È un invito a vivere intensamente, anche accettando la fugacità della vita?
Assolutamente sì. La vita corre così veloce che tutto ti si schianta addosso. Non puoi frenarla, puoi solo accoglierla. Accettare l’impermanenza è l’unico modo per viverla davvero.

A ottobre debutti a teatro con L’affine del mondo. Cosa racconta questo spettacolo?
Parla dell’affinità. “La fine” è l’inizio: quando due persone trovano affinità, nasce un mondo nuovo. In un’epoca in cui siamo più abituati allo scontro che all’ascolto, voglio riabilitare l’empatia e la gentilezza, attraverso il teatro, la musica e il racconto.
Sarai da solo sul palco?
No, sarò con la mia super famiglia-band. Musica e parola saranno fuse: racconterò e canterò, porterò anche i brani del nuovo disco che uscirà a settembre. Sarà un cerchio, un mondo connesso.
Invece del tuo nuovo libro Le chiamava persone medicina cosa ci dici? Quanto c’è di autobiografico?
Tanto, come diceva Fellini, sono autobiografico anche se parlo di una rasoiola! Alcuni personaggi sono crasi di persone reali, come Nonna Adele, ispirata a una nonna che mi ha accolto nelle campagne quando ero bambino. È un omaggio a chi ti raddrizza l’anima come si fa con una pianta curva.
Ti senti più scrittore, cantautore o performer?
Mi definisco un pensa-autore. Prima di tutto viene il pensiero autentico: senza quello, non avrei nulla da trasformare in canzone, romanzo o spettacolo. Sono al servizio della vita.
È vero che il tuo nome, Gio Evan, ti è stato dato da uno sciamano sudamericano?
Sì! Un curandero che mi ha ospitato quando ero povero e disperato. Mi ha dato il mio vero nome, quello che la vita ti consegna, non i tuoi genitori. Da allora la mia vita è cambiata.
Nel 2018 Elisa Isoardi ha citato un tuo verso in un post diventato virale. Come hai vissuto quella popolarità improvvisa?
Con distanza. La poesia fa il suo viaggio, sceglie da sola dove andare. Non mi appartiene più una volta scritta. Mi diverte trovarla nei luoghi più improbabili, perché l’arte è libera, non ha confini.
Infine, per te, cos’è la poesia?
La poesia trascende chi la scrive. È universale, fluida, ribelle. Appartiene a chi la sente vibrare dentro, non a chi l’ha creata.