Quando una persona cara ti viene strappata via non c’è razionalità che tenga. Non importa se la morte sia arrivata dopo un lungo periodo di malattia o all’improvviso: non si è mai del tutto preparati e all’inizio ci si sente come in una bolla, quasi estraniati da ciò che accade intorno.
È una delle fasi del lutto, comprensibilissima. Solo con il tempo ci si rende davvero conto della perdita e arriva la nostalgia, il dolore, la rabbia. Deborah Compagnoni riesce a riassumere queste sensazioni in poche parole: “Era bellissimo e speciale. Un mese fa la morte di mio fratello sembrava sospesa, irreale, adesso invece l’incredulità si è fatta concreta e dolorosa. Lo sento di più, oggi, il lutto”.
Deborah Compagnoni, l’addio al fratello Jacopo
In una lunga e bella intervista sul Corriere della Sera la campionessa si racconta ripercorrendo i momenti più intensi di una carriera straordinaria, che l’ha vista sul tetto del mondo grazie alle sue montagne e alla neve. Quella stessa neve che però con una valanga si è portata via Jacopo, il fratello.
“Darsi spiegazioni, come si fa? Io credo nel destino. Quando deve accadere, accade. Mi piace pensare così perché mi aiuta a vivere meglio. Provo a essere forte, a tenere su i miei. Jacopo aveva un’energia stupenda, conosceva la montagna a menadito, non si può dire che abbia commesso alcun errore. È andata così. Certo, per chi resta, è straziante”, ammette.
Non si può portare sul piano della razionalità qualcosa che di logico non ha nulla. Le cose accadono senza una ragione e lei, da sportiva, sa che non c’è nulla da fare se non prendere atto, farsi forza e andare avanti.
Deborah Compagnoni, la montagna e il dolore
Forse è per via della sua carriera costellata da infortuni che Deborah Compagnoni riesce a incasellare nella parola “destino” ciò che è accaduto al fratello. Lei, che a causa delle sue ginocchia di cristallo si è dovuta fermare più volte e ripartire, con sofferenza e sacrificio, ma anche qui “come nel caso di Jacopo, la storia non si può cambiare. Quante cose si potevano fare diversamente? Mi piace cogliere gli aspetti positivi degli stop forzati: impari a conoscerti di più, a trattarti meglio, a coltivare la pazienza. È un lavoro di testa”.
Impossibile dimenticare l’urlo di dolore che ha squarciato le vette di Albertville nel 1992, quando dopo aver appena vinto l’oro in SuperG si è rotta il ginocchio: “Ho capito subito che non era un infortunio banale. C’è l’urlo di Tardelli per il gol al Mondiale e poi c’è il mio…”.
Ora la campionessa si trova a Santa Caterina, dove tutto è cominciato, tra le montagne di casa dei suoi genitori, per stare accanto alla mamma e al resto della famiglia in questo momento difficile. Il pensiero va a Jacopo, certo, ma anche ai suoi figli, che come lei coltivano la passione per lo sport: “Agnese e Tobias sono grandi, studiano negli Stati Uniti, dove lo sport fa parte del programma delle università. Luce ha 15 anni, me la godo ancora, è molto dedicata allo studio”.