HIV e gravidanza, le indicazioni per le donne

Una donna affetta da HIV può avere figli e condurre una gravidanza normale senza correre il rischio di trasmettere il virus al nascituro: cosa si può fare

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Ricordate una regola, che sa di matematica ma è tremendamente utile per capire come comportarsi in caso di infezione da HIV, il virus responsabile dell’Aids, che oggi viene tenuto sotto controllo con le terapie tanto che si parla di patologia cronica: U=U, recita l’eguaglianza, perché Undetectable=Untransmittable.

L’HIV non viene trasmesso sessualmente se la viremia del partner HIV positivo è persistentemente non determinabile nel sangue, grazie alla corretta assunzione di un’efficace terapia antiretrovirale. Oggi questo principio si può applicare anche alla trasmissione verticale madre-feto: una donna affetta da HIV può avere figli e condurre una gravidanza normale senza correre il rischio di trasmettere il virus al nascituro. A dirlo sono gli esperti presenti al Congresso ICAR – Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, tenutosi a Riccione.

Cosa deve fare la donna

“Il tema della gravidanza può declinarsi in vari scenari – spiega Francesca Vichi, Medico Malattie Infettive SOC1 USL Toscana Centro, Firenze, Responsabile Day Hospital Ambulatorio. – Se si tratta di una donna HIV positiva, l’argomento “U=U” è attualissimo, purché sia stabilmente in terapia antiretrovirale ad alta efficacia per raggiungere una carica virale negativa. La terapia è efficace, ben tollerata dalla donna, non dannosa per il feto e può accompagnare la paziente in tutti i cambiamenti fisiologici che avvengono durante la gravidanza e le relative interazioni con i farmaci assunti nei 9 mesi. Naturalmente una donna in gravidanza in terapia va seguita in maniera molto stretta al fine di verificare che tutto proceda regolarmente e senza effetti collaterali”.

“Un caso particolare può essere quello in cui la donna scopra la sieropositività proprio durante la gravidanza, fenomeno purtroppo ancora frequente secondo gli ultimi dati dell’Istituto Superiore di Sanità, soprattutto tra le donne straniere. Su queste pazienti bisogna impostare rapidamente una terapia efficace e molto potente per raggiungere nel minor tempo possibile la non rilevabilità (RAPID ART). Disponiamo di farmaci molto potenti, efficaci e con una buona tollerabilità nella donna in gravidanza”.

Le evidenze scientifiche sulla sicurezza della gravidanza della donna HIV positiva sono dimostrate dagli ultimi sviluppi dello Studio Tsepamo, in corso dal 2014 in Botswana e regolarmente aggiornato. “Gli ultimi dati dello studio Tsepamo evidenziano che l’assunzione di terapia base di Dolutegravir fin dal concepimento ha un rischio di danni neuronali al bambino dello 0,15%, quindi minimi e paragonabili al danno che può provocare l’esposizione a un qualunque altro farmaco – sottolinea l’esperta. L’ultimo follow up dello Studio Tsepamo, pubblicato allo IAS (International AIDS Society Conference) a luglio 2021, propone l’analisi su una popolazione di quasi 200mila donne in gravidanza, delle quali circa 6mila avevano ricevuto Dolutegravir nel periodo periconcezionale, con un danno neuronale del neonato con una prevalenza dello 0,15%. In assenza di qualsiasi tipo di intervento, il passaggio dell’HIV dalla madre al figlio si attesta tra il 15 e il 45%; con la negativizzazione della carica virale per tutta la gravidanza, il passaggio diventa quasi nullo”.

“Il concepimento e il parto possono così essere naturali: grazie alla terapia antiretrovirale quotidiana, la donna HIV positiva può vivere la propria gravidanza come tutte le altre donne. Questo ha un grande significato sia a livello individuale sia comunitario ed è un forte messaggio contro lo stigma”.

I bisogni delle persone con HIV

Nell’ambito del congresso è stata presentata un’indagine effettuata nei primi mesi del 2021, condotta su quasi 600 persone che ha coinvolto i centri della coorte Icona, con il sostegno delle associazioni di pazienti. Lo studio ha preso in esame circa 600 persone con infezione da HIV in terapia antiretrovirale, in maggioranza maschi, che assumevano in quasi tre casi su quattro una terapia orale in singola compressa ogni giorno. L’età media della popolazione era di 49 anni, il 42% era laureato, sei persone su dieci avevano un impiego stabile.

Sul fronte del trattamento, il 64% era in trattamento con tre farmaci e il 31% con due soli farmaci. Sono stati valutati i diversi aspetti sociali correlati alla condizione, al trattamento e all’impatto del trattamento anti-HIV e di eventuali co-terapie sulla vita di ogni giorno, oltre che sullo stato di salute. L’indagine ha considerato esclusivamente il punto di vista dei pazienti, con un obiettivo chiaro legato alla comprensione della qualità di vita relativa alla salute percepita.

Per misurare i differenti aspetti si è utilizzato un questionario internazionale, adattato alla situazione italiana, con 31 domande mirate che considerano molteplici aspetti: dalle condizioni di presa in carico e cura alla gestione del rapporto con il centro clinico, dallo stato di salute generale alle difficoltà a risultare aderente alle terapie, per arrivare alla valutazione del livello di vita sociale e sul lavoro.

Dallo studio è emerso che una persona con infezione da HIV su cinque percepisce in maniera significativa il peso dell’impatto della malattia e della terapia. La giovane età, la non completa soddisfazione del trattamento antiretrovirale assunto e la richiesta di maggiore interazione con un sistema sanitario (medici, infermieri, struttura) più attento alla specifica condizione della persona sono i parametri che più appaiono correlati con il “peso” della malattia.