Tornassi indietro non mi sposerei

Una volta sposata ho dovuto lasciare il lavoro. Ho sempre badato alla casa, alle figlie, e ho contribuito all'attività della famiglia di mio marito. Ma non ho mai potuto gestire una lira. Vi racconto i tempi che ho vissuto io

Foto di Alessandra Del Re

Alessandra Del Re

Giornalista esperta di Costume&Società

Scrive per necessità e passione. Ama le storie degli altri, famosi e non, leggerle e raccontarle

Abbiamo raccolto la testimonianza di una nostra lettrice: vi raccontiamo la sua storia – Arrivata a un’età ti guardi indietro e non puoi fare a meno di dire “questo lo rifarei, questo no“. Fa parte della vita, ed è uno dei motivi per cui sarebbe fantastico vivere due esistenze, la seconda con il bagaglio di consapevolezza che ti ha dato la prima.

No, non voglio piangere sul latte versato, voglio solo condividere con voi la mia storia, chissà che qualcuna ne trovi uno spunto di riflessione. O ci si ritrovi. La nostra società è basata sulla famiglia, e di conseguenza sul matrimonio. Io mi sono sposata molto giovane, in quella che sembra un’era geologica fa.

Dovete sapere che all’epoca le cose erano per alcuni versi molto lontane da oggi, per le figlie femmine in particolar modo. Da ragazzine il massimo della mondanità per me e le mie coetanee, nate in un paesino di provincia, erano andare a messa la domenica mattina e all’oratorio la domenica pomeriggio. Una volta cresciute le cose non è che cambiavano di molto. Non potevamo certo uscire la sera, fare tardi, andare in vacanza con le amiche.

Questa mancanza di libertà, insieme al fatto che si iniziava a lavorare molto giovani e quindi a essere economicamente indipendenti, faceva sì che ci si sposasse molto presto, poco più che ventenni. Mi ricordo le sere d’inverno davanti al camino passate a ricamare quella che sarebbe stato il nostro corredo nuziale, le lenzuola, i centrini e via dicendo.

Per me, come per molte altre mie coetanee, l’uomo che ci portava all’altare era quasi sempre il primo fidanzato. Vi parlo della fine degli anni Sessanta, per la legge italiana esisteva ancora il capofamiglia ed era l’uomo, che a livello giuridico e sociale aveva autorità sugli altri membri: non solo sui figli, ma anche sulla moglie. Quindi la donna passava dalla patria potestà di suo padre per l’appunto, alla potestà maritale cioè quella del marito.

La moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza. (Codice Civile del 1942)

Ci andava bene così, perché quella era la condizione che avevano vissuto le nostre mamme, e ancora prima le nostre nonne. Ci andava bene così perché non conoscevamo altro, perché eravamo ignoranti. E così ci sembrava normale lasciare il lavoro una volta sposate, o una volta arrivato il primo figlio, dedicarci unicamente alla casa e ai piccini. Vi sembra una situazione idilliaca? Per alcune lo sarà stato. Non lo è stato per me.

Io, ragazza di provincia con la fede al dito e una neonata tra le braccia, sentivo nascere dentro altri sogni. L’ondata femminista di quegli anni travolgeva il mondo e l’Italia e arrivò, seppur in modo attenuato, anche a me. Che non sono mai andata a bruciare i reggiseni o manifestare in piazza, ma ho iniziato ad aspirare a qualcosa di più, soprattutto per le mie figlie.

Mi ero sposata per essere libera, ma libera non ero. Avevo dovuto lasciare il mio lavoro da impiegata, che probabilmente non mi avrebbe permesso di fare carriera ma mi avrebbe garantito dell’autonomia a livello economico. A casa anche quando non ce la passavamo male non ci siamo mai goduti niente, si pensava sempre e solo al lavoro.

I soldi li ha sempre gestiti mio marito ed era a lui che dovevo chiederli se mi servivano dei vestiti più grandi per le bambine o un paio di scarpe nuove per me. C’è da dire che il denaro per i bisogni familiari non me li ha quasi mai negati, ma se ci penso è stato umiliante. Pulivo, lavavo, stiravo, cucinavo, badavo alle piccole, appena potevo davo una mano nel negozio della famiglia di mio marito. Eppure non potevo gestire una lira.

Mio marito arrivava a casa la sera, si toglieva le scarpe e si metteva in poltrona, davanti alla tv o col giornale in mano. Io sul tavolo della cucina controllavo i compiti delle mie bambine, provavo loro la lezione per il giorno dopo. Intanto preparavo la cena. Mio marito non sapeva nemmeno farsi un caffè da solo, quando mi ricoverarono per un’ appendicite si rifugiò a casa da sua madre e affidò le nostre figlie a mia sorella.

Mi sarebbe tanto piaciuto avere un lavoro mio, anche di mezza giornata, o qualcosa da fare nella mia abitazione, come quelle mie amiche che portavano a casa da una sartoria i capi da ricamare finemente. Insomma, un lavoro retribuito. Ricordo che una volta feci la cresta sulla spesa e riuscii a mettere da parte una cifra sufficiente per comprarmi una borsa di pelle e midollino. In quei giorni c’era in visita dai miei genitori una cugina di città, e d’accordo con lei raccontai a mio marito che era un suo regalo.

Potrete pensare che poteva capitarmi di peggio. Che avrei potuto avere un marito despota e violento. Sì, è vero, poteva andare peggio. Ma io la mia vita non l’ho goduta. Per decenni sono stata subordinata a qualcun altro e non è stato bello. Non lo è stato per me.

Ringrazio il Cielo che le miei figlie siano nate e cresciute in un’epoca diversa. E che mio marito si sia alla fine arreso ai cambiamenti, così che, anche se ormai anziana, qualche rivincita me la sono potuta prendere. Ma il mio orgoglio e la mia vittoria sono state le mie ragazze. Che hanno potuto studiare, tanto che la minore è riuscita a specializzarsi lontano da casa. Oggi entrambe lavorano, sono indipendenti. Anche loro hanno formato una famiglia, ma contano tanto e quanto l’uomo che hanno accanto. Perché più che un marito hanno al loro fianco un compagno di vita.