Donne della Resistenza. Chi era Joyce Lussu, partigiana e poetessa

Joyce Lussu ha sempre lottato per contrastare ogni oppressione, mettendo nero su bianco il suo impegno di donna e partigiana

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Redazione

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Sulla Resistenza sono stati versati fiumi d’inchiostro. In tanti hanno raccontato questo movimento politico che ha caratterizzato il nostro paese nei difficili anni della seconda guerra mondiale, ma forse in pochi lo hanno fatto come Joyce Lussu. Scrittrice, poetessa, femminista, ma soprattutto partigiana, che fino alla sua scomparsa non ha mai smesso di lottare contro ogni oppressione, in particolare quella nazifascista. Ecco perché in occasione della Giornata della Memoria è utile capire chi era davvero Joyce Lussu.

Sarebbero davvero tanti gli aggettivi utili per descrivere questa donna con la D maiuscola. La sua è stata una vita straordinaria in cui ogni giornata è stata affrontata con passione e determinazione. Il suo pensiero è ancora oggi attualissimo e non smette di fare breccia nel cuore di chi vuole combattere ancora, proprio come faceva lei, contro quelli che possono sembrare ostacoli insormontabili.

Una famiglia profondamente antifascista

Nata a Firenze nel 1912, per lei il padre aveva scelto fin da subito un nome insolito e decisamente esotico: Joyce. Il secco rifiuto dell’impiegato dell’anagrafe costrinse i genitori a chiamarla Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, anche se poi in famiglia è sempre rimasta per tutti Joyce. Figlia di un discendente del conte di Fermo e di una nipote di garibaldini, fa parte di una famiglia liberale, trasferitasi dalle Marche a Firenze per allontanarsi dall’eccessivo entusiasmo nei confronti del fascismo che il nonno di Joyce non esitava a dimostrare.

La futura scrittrice si nutre di questo sentimento antifascista del padre, al punto da nascondere un piccolo pezzo di carbone nella cartella della scuola per scrivere “Abbasso il fascio” sui muri. Gli anni fiorentini non sono stati semplici per la famiglia Paleotti, al punto che lo stesso padre di Joyce viene pestato da alcuni squadristi, costringendolo a emigrare in Svizzera, non lontano da Losanna.

Non è un periodo facile nemmeno quello elvetico, ma è in questa terra che la poetessa partigiana apprende il tedesco e il francese, studia filosofia e si accorge con crescente preoccupazione della simpatia nei confronti del nazismo. La Svizzera regala a Joyce anche il primo incontro di quello che sarà il grande amore della sua vita, Emilio Lussu, eroe della Grande Guerra. È un colpo di fulmine, ma i due sono costretti a pazientare diversi anni prima di rivedersi.

Joyce sposa un possidente fascista e si trasferisce in Kenya, ma il matrimonio naufraga presto. Non abbandona però l’Africa, da lei tanto amata e lasciata a malincuore prima del nuovo incontro con Emilio. Lei non lo ha dimenticato e anche lui ha fatto lo stesso, stavolta però non si separano più.

Un amore più forte delle difficoltà

La coppia vive in Francia ma è costretta a fuggire clandestinamente quando Parigi viene occupata dai nazisti. È soltanto l’inizio di una serie infinita di spostamenti per evitare le rappresaglie: Joyce ed Emilio affrontano con coraggio ogni peripezia, prima in Spagna, poi in Inghilterra e nuovamente in Francia. È proprio nel paese transalpino che la poetessa viene fermata dalla Gestapo, riuscendosi a salvare soltanto grazie alla sua conoscenza del tedesco.

Il ritorno in Italia avviene dopo la caduta di Mussolini, il momento giusto per entrare a far parte della lotta partigiana. Il suo nome di battaglia è Simonetta e affronta con coraggio ogni tipo di pericolo, in particolare quelli della Roma occupata dai tedeschi. Nel 1944 dà alla luce il figlio Giovanni nella Capitale appena liberata ed è in questo periodo che mette nero su bianco una delle sue poesie più celebri e toccanti, “Scarpette rosse numero 24” una delle testimonianze più sentite che merita di essere approfondita in occasione della Giornata della Memoria:

C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buchenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.

È un messaggio potente e intenso, in grado di far capire realmente nel profondo cosa abbia significato questa tragedia. Joyce Lussu, però, si dimostra instancabile e determinata anche nel dopoguerra. Viaggia in Sardegna, si appassiona all’isola e contribuisce a fondare l’Unione Donne Italiane. La lotta contro le oppressioni rimane il suo pensiero costante, non smette di scoprire l’Europa e di conoscere altri poeti come Nazim Hikmet di cui traduce in italiano le principali opere.

L’impegno come traduttrice

Le sue traduzioni si allargano ai poeti di ogni angolo del mondo: albanesi, angolani, persino eschimesi. Non è un semplice lavoro letterario, per Joyce tradurre significa non mettere in secondo piano i valori della Resistenza e permettere a ogni parola di circolare liberamente per il mondo. È un impegno che non conosce fatica o sosta: nel 1968 si appassiona alle proteste studentesche, prende parte alle lotte femministe degli anni Settanta, si cimenta nell’impegnativa scrittura di una storia delle donne, secondo lei puntualmente escluse da ogni secolo.

Emilio muore nel 1975, ma questo non le impedisce di impegnarsi in nuove battaglie. Abbandona Roma e si interessa alle questioni agrarie, spostandosi poi di scuola in scuola per far conoscere alle generazioni più giovani il suo passato. È l’occasione per far capire che gli anni trascorsi sono sempre uno spunto di riflessione.

Nel 1998 muore nella Capitale a 86 anni, lasciando quello che ancora oggi appare come un vuoto incolmabile. Nel cimitero acattolico della città si può ammirare un cippo funerario dedicato a lei e a Emilio, un piccolo ricordo per quella che è stata una grande donna. Joyce Lussu è stata molto più di una semplice poetessa e partigiana: è stata l’emblema dell’ironia, dell’acume, della bellezza non semplicemente fisica. Ha pensato, ha lottato, ha agito, in poche parole non ha mai lasciato nulla di intentato.

La sua modernità ci appare immensa anche a distanza di 25 anni dalla sua scomparsa, a testimonianza del fatto che il segno che ha lasciato è stato profondo. Per descriverla nel modo più appropriato, comunque, non c’è niente di meglio che citare le parole di Silvia Ballestra che la intervistò negli anni Novanta: “Sibilla, figura ancestrale e misteriosa: è stata un tempo, un intero secolo, ed è stata un mondo”.