Lidia Maksymowicz, la cavia di Mengele sopravvissuta all’Olocausto

Era solo una bambina, Lidia, quando fu separata da sua madre e condotta tra le braccia dell'angelo della morte di Auschwitz. Ma a quelle riuscì a sopravvivere

Foto di Sabina Petrazzuolo

Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

C’era una volta, neanche tanto tempo fa, uno dei capitoli più neri dell’intera storia dell’umanità intitolato Olocausto. In molti hanno provato a dimenticare, perché così sarebbe stato più facile. Ma quelle pagine del libro ormai erano state scritte e non si potevano cancellare. Così, il nostro compito ieri e oggi è diventato di ricordare affinché tali atrocità non vengano mai più perpetuate. E lo facciamo attraverso le storie reali di persone che quell’inferno lo hanno vissuto sulla loro pelle, che in quello sono cadute o da quello sono riuscite a scappare. Come Lidia che, quando tutto è iniziato, era solo una bambina.

Nessuno aveva il diritto di strapparle via quell’infanzia spensierata e allegra che le spettava di diritto, eppure lo hanno fatto perché sua era la colpa di essere una bambina figlia della Resistenza. Così ecco che anche il suo nome non aveva più importanza, Lidia era diventata un numero, il 70072. Un codice che testimonia l’inizio dell’orrore, quello l’ha condotta direttamente le braccia dell’angelo della morte di Auschwitz che utilizzava le persone per i suoi criminali esperimenti.

Nata nella regione bielorussa di Vitebsk, Lidia viene portata nei campi di concentramento insieme alla sua famiglia nel 1943, l’accusa è quella di essere partigiani. Per i nonni non ci fu possibilità di salvezza e vennero condotti direttamente alle camere a gas. Sua madre, che aveva solo 22 anni e che aveva aderito alla Resistenza bielorussa, viene invece designata ai lavori forzati e separata dalla sua bambina che aveva solo due anni

E poi c’era Lidia, una bambina appunto, il quale destino portava il nome di Josef Mengele, l’angelo della morte di Auschwitz ossessionato dall’idea di rendere perfetta la razza ariana. Nel Kinderblock, il famigerato blocco dei bambini, tutti avevano paura di lui e dei suoi esperimenti. C’erano le sterilizzazioni forzate, le iniezioni di sostanze tossiche e virus per studiare gli effetti delle malattie infettive, c’erano le sue atrocità, quelle che Lidia subì nei tre anni trascorsi nel blocco.

Ma nonostante tutto Lidia ce la fa, perché il desiderio di riabbracciare sua madre, dalla quale era stata separata, e di tornare a vivere e più forte della paura, della rabbia e dell’odio. Così durante quel gennaio del 1945 viene liberata, ma si ritrova sola. Molti dei suoi compagni non ce l’hanno fatta, i suoi nonni nemmeno. Sua madre, invece, era stata costretta a partecipare alla marcia della morte verso Bergen-Belsen l’anno prima, con la promessa che sarebbe tornata a riprenderla.

Una donna polacca e senza figli si prese cura di lei e delle altre orfanelle dei campi di sterminio, delle sopravvissute all’Olocausto. Così trasferitasi in Polonia, la piccola Lidia iniziò la sua nuova vita, pur non dimenticando mai sua madre.

Quella promessa, fatta diversi anni prima, fu mantenuta. Lidia lo sapeva, lo sentiva e cominciò a cercare sua mamma attraverso. Quel codice che portava sul braccio e che era stata la sua maledizione era diventato la luce in fondo a un tunnel fatto di dolore.

Grazie a quel 70072, a diciotto anni, Lidia trova ad Amburgo una donna con quello stesso numero: era sua madre. Così nella primavera del 1962 le due si sono ritrovate.

Lidia Maksymowicz
Fonte: Getty Images
Lidia Maksymowicz