A chiudere il ciclo della stagione televisiva, Belve Crime – spin-off giudiziario del celebre programma condotto da Francesca Fagnani – ha portato in prima serata uno degli incontri più delicati, controversi e disturbanti: quello con Massimo Bossetti, condannato per l’omicidio di Yara Gambirasio.
L’intervista, registrata nel carcere di Bollate dove Bossetti sta scontando la pena, si muove in equilibrio costante tra racconto e negazione, tra il peso della sentenza e la narrazione personale di un uomo che continua a dichiararsi estraneo ai fatti, nonostante la condanna definitiva in tre gradi di giudizio. E anche se la Fagnani – come da cifra stilistica – non arretra mai, in questo caso il gioco di domande e risposte è qualcosa di più di una prova di resistenza verbale: è un viaggio dentro uno dei casi più dolorosi e mediaticamente esposti della cronaca italiana.
“È tutto assurdo, anomalo e incompreso”: la difesa continua di Bossetti
Il cuore dell’intervista gira, inevitabilmente, attorno al DNA. Il profilo genetico che ha portato all’identificazione di Bossetti è stato rinvenuto sugli slip e sui leggings di Yara. E la domanda che Francesca Fagnani pone, più volte, in modi diversi, è una sola: “Come ci è finito il suo DNA sul corpo di Yara?”. La risposta di Bossetti, ogni volta, è la medesima: “Non lo so. Vorrei capirlo anch’io”.
Un loop verbale che, più che difendere, suona come un cortocircuito. L’uomo sembra rifugiarsi in dettagli tecnici, nel confronto tra DNA mitocondriale e nucleare, nella presunta dispersione del materiale biologico, ma viene puntualmente riportato alla realtà da Fagnani: “Il DNA nucleare identifica una persona. E purtroppo per lei, e per Yara, era il suo”.
Durante il colloquio, Bossetti appare nervoso, ma mai realmente scosso. Intervalla risposte rigide con sorrisetti brevi, quasi involontari, che non alleggeriscono ma accentuano l’inquietudine. Soprattutto quando si appiglia a concetti giuridici o a interpretazioni scientifiche che sembrano più funzionali a spostare il focus che a chiarire.
Si definisce “etichettato a vita”, parla di “ingiustizia”, dice di sopravvivere “con la sola arma della verità”. Eppure, quando la conduttrice gli ricorda che nessuna delle sue richieste di revisione è mai stata accolta, lui non replica. Non c’è mai, nel suo sguardo, un vero confronto con la figura di Yara. E questa assenza si sente.
Fagnani non arretra: quando la domanda pesa più della risposta
In un’intervista già difficile, Francesca Fagnani sceglie di non abbellire nulla. Si muove nel confronto con il rigore che l’ha resa una delle voci più affilate del giornalismo televisivo italiano.
Non c’è complicità, non c’è spazio per concessioni emotive. Ma c’è rispetto. Per il pubblico, per la verità dei fatti, per la memoria di Yara.
E quando Fagnani domanda se sia possibile che lui stesso abbia rimosso ciò che ha fatto, Bossetti risponde con freddezza: “Non ho rimosso nulla, perché non c’è nulla da rimuovere”. Un’affermazione che suona netta, definitiva, e che lascia tutto in sospeso.
Il racconto personale e l’ambiguità del “non detto”
Oltre al caso giudiziario, l’intervista scava anche nella biografia privata di Bossetti. Racconta del soprannome “il favola”, attribuitogli sul lavoro per le bugie usate per evitare i turni. Parla della rivelazione della paternità biologica: durante le indagini emerse che non era figlio di Giovanni Bossetti, ma di Giuseppe Guerinoni.
Una scoperta dolorosa, affrontata con una madre che – a suo dire – avrebbe taciuto per anni. “Non mi interessa il passato, ma avevo diritto alla verità”, dice. Tuttavia, anche in questo passaggio, l’uomo sembra muoversi più per accumulo che per chiarezza, rimestando tra dettagli confusi e frammenti di memoria.
Il momento forse più difficile arriva quando si torna sull’arresto, da lui definito “disumano e vergognoso”. Racconta di essere stato costretto a inginocchiarsi, di non aver capito cosa stesse succedendo. Ed è in queste fasi che il racconto tocca la sua massima tensione: non per ciò che viene detto, ma per ciò che non viene mai detto davvero.
Bossetti non nomina mai Yara se non indirettamente. Non si sofferma sulla tragedia della vittima, sulla sua giovanissima età, sul dolore dei genitori. Dice di comprenderli, di non essere il vero colpevole, ma non costruisce mai un discorso empatico verso chi ha perso una figlia di tredici anni.