La storia di Yara Gambirasio, a undici anni dal suo omicidio

Yara Gambirasio scompare il 26 novembre 2010 a Brembate. Viene ritrovata il tre mesi dopo: è stata colpita barbaramente e lasciata morire

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Sono passati undici anni dal giorno della scomparsa di Yara Gambirasio, era il 26 novembre del 2010, e mi ricordo perfettamente l’angoscia quando le tv nazionali cominciarono a darne notizia. Forse perché prima di essere una giornalista, sono sempre stata una madre, forse perché quella ragazzina all’epoca aveva tredici anni e mia figlia dodici, ma lo strazio di quella ricerca infruttuosa andata avanti per giorni, settimane, mesi, mi è rimasta incollata addosso, come una seconda pelle.

Ci avevamo sperato tutti in un finale diverso, ma più passava il tempo più le speranze di ritrovare viva quella bambina appena adolescente, si affievolivano, dopotutto la giurisprudenza e la statistica in casi di scomparsa sono abbastanza crudi e chiari, dopo le prime 48 ore, la percentuale che un caso di rapimento si risolva positivamente sono bassissime. Non c’era giorno in cui non mettessi a letto i miei figli chiedendomi cosa stesse provando la mamma di Yara, che non poteva più tirare su le coperte della sua bambina, perché le era stata strappata via, immaginavo la sua angoscia e i suoi sensi di colpa, perché noi madri siamo fatte così, riusciamo a darci la colpa per “crimini” mai commessi. Chissà quante volte avrà ricordato quel pomeriggio di libertà, quante volte avrà ripercorso quei metri che separano la palestra dalla loro abitazione, e quante volte avrà pianto, in silenzio, magari chiusa nel bagno, per non farsi vedere dagli altri figli.

Perché una delle altre cose che mi è rimasta addosso di quella tragedia è la compostezza e la dignità del dolore dei genitori, Maura e Fulvio, che non hanno mai urlato la loro devastazione, non hanno cercato i riflettori nemmeno per sfogarsi, e, quando lo hanno fatto, è stato solo per lanciare un appello ai presunti rapitori, mi ricordo le parole del padre: “Aprite il cancello che la tiene prigioniera e lasciatela vivere, e tornare dalla sua famiglia.” No, non si possono dimenticare. Come non si può dimenticare il viso di quella bambina sorridente, intenta a praticare il suo sport preferito, la ginnastica artistica, lei, il suo body, e i nastri colorati prima della gara.

Oggi quella ragazzina avrebbe ventiquattro anni, e chissà quante cose avrebbe potuto fare, quanta vita avrebbe avuto ancora da vivere, vita che invece le è stata tolta la notte stessa in cui è stata strappata all’amore della sua famiglia. Ma voi potete anche solo immaginare il dolore di una famiglia che si ritrova intorno alla tavola di Natale, mentre la propria figlia è ancora data per dispersa? Perché è vero che a volte non sapere, possa alimentare la speranza che un giorno quella bambina possa tornare, ma lo strazio di sapere di essere al sicuro mentre tua figlia è nelle mani dei mostri, penso sia peggio di qualsiasi inferno terreno. Perché un genitore darebbe la vita per il sangue del suo sangue, e sapere di non essere riusciti a proteggerla ti devasta dentro. Anche se sai che non è colpa tua, anche se sei consapevole di non poter rinchiudere un figlio dentro un’ampolla di vetro, e sei consapevole che non avresti potuto agire diversamente, la verità è che ti è stato stappato un pezzo della tua carne, e che niente sarà più lo stesso.

Fonte: Ansa
Massimo Bossetti (Ansa)

Quando Yara è stata ritrovata in quel campo a Chignolo d’Isola il cuore di tutti quelli che la stavano cercando si è fermato proprio lì, su quello spiazzo di terra brulla e fredda, è stato l’epilogo che nessuno avrebbe mai voluto. Mi ricordo le notizie che correvano veloci, di canale in canale, di trasmissione in trasmissione, tutti annunciarono la notizia che il corpo rinvenuto a pochi chilometri da casa sua, un altro colpo duro da digerire. Lei era sempre stata lì, abbandonata come si fa con le cose che non servono più, dopo averla colpita con una spranga e a averle inferto numerose coltellate, lasciata a morire di freddo, senza pietà. Una bambina di tredici anni, l’innocenza spezzata da un unico assassino, Massimo Bossetti, che viene trovato dopo una ricerca durata quattro anni, tramite il ritrovamento del suo dna sugli slip e sui leggings di Yara. L’uomo che all’epoca aveva 44 anni, sposato e padre di tre figli, muratore di Mapello incensurato, fu così arrestato il 16 giugno 2014. Il suo Dna nucleare fu trovato sovrapponibile con quello dell’uomo definito “Ignoto 1”, rilevato sugli indumenti intimi della Gambirasio nella zona colpita da arma da taglio. Il 26 febbraio 2015 la Procura della Repubblica di Bergamo chiude ufficialmente le indagini, indicandolo come unico colpevole e chiedendone il rinvio a giudizio. Il 1 luglio del 2016 la Corte d’Assise d’Appello di Bergamo condanna Bossetti all’ergastolo con l’aggravante della crudeltà revocandogli così la potestà genitoriale sui tre figli.

Ma non è la storia di questo omicida che volevo raccontarvi, perché che lui si dichiari innocente e chieda la revisione del processo, che gli è stata negata in tutte le sedi opportune, non mi interessa. Quello che volevo ripercorrere è la storia interrotta di questa famiglia normale, perché troppo spesso quando qualcuno muore in modo violento, le cronache tendono a scandagliare l’esistenza dell’assassino, o a ripercorrere gli elementi che possono averlo portato a commettere l’azione per cui è stato condannato, dimenticandosi delle vittime. Già perché in ogni storia che finisca con un omicidio ci sono delle vittime, al plurale, non soltanto la persona, cui la vita è stata spezzata, ma quelli che rimangono, che a volte si trovano anche senza una tomba sulla quale poter piangere.

Perché quando muore un figlio, quando la carne della tua carne ti viene strappata via, non ci sarà più una vita, ci sarà solo la “sopravvivenza”, perché lo devi agli altri tuoi bambini, perché bisogna farsi forza, perché si va avanti, anche se volte si vorrebbe solo sparire. E allora oggi, a undici anni dalla sua scomparsa, io voglio ricordare Yara e la sua famiglia, che sono stati in grado di raccontare l’amore per la propria figlia anche senza le parole. Per non dimenticare che per essere vittime spesso non si debba morire. Basta sopravvivere a chi ami.