Perché la causa LGBT+ non dovrebbe essere utilizzata solo per fare marketing

Farsi portavoci dei diritti LGBT+ solo per essere percepiti come progressisti, moderni e tolleranti, non è la strada giusta. Vi spieghiamo perché

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Redazione

DiLei è il magazine femminile di Italiaonline lanciato a febbraio 2013, che parla a tutte le donne con occhi al 100% femminili.

Non si contano sulle dita di dieci mani le aziende, le imprese e gli influencer che, in ogni occasione, utilizzano i colori arcobaleno, e li indossano pure, per rivendicare i diritti della comunità LGBT+, per farsene portavoci e per attirare l’attenzione e i consensi dei giovani e dei liberali. Ma questo è davvero un bene?

Un interessante articolo del docente universitario Cas Mudde, condiviso sull’Internazionale, ha analizzato la questione LGBT+ in merito a quanto è accaduto tra Ungheria e Uefa. Questo ci ha dato motivo di riflettere attentamente sul fenomeno del pink washing a livello mondiale, ovvero quello che fa riferimento ai comportamenti particolarmente gay friendly di un’azienda, di un’impresa o di un Governo, che sono assunti esclusivamente per ottenere consensi.

Cosa è successo durante la Uefa? La polemica è scoppiata quando la Union of European Football Associations ha scelto di indossare la bandiera della neutralità per non far arrabbiare Viktor Mihály Orbán. Ovviamente, l’indignazione di tutti si è scatenata in pochissimo tempo. Una reazione, questa, che ha portato la Uefa a fare un passo indietro e colorare con l’arcobaleno il suo logo.

Al di là delle questioni politiche ed economiche che si nascondono dietro queste scelte, vale la pena chiedersi perché, soltanto ora, tutti si sono scagliati prima contro la Uefa, e poi contro il primo ministro dell’Ungheria che, da quando è in carica, minaccia e indebolisce i diritti dei cittadini, delle donne e dei migranti, senza troppi ostacoli.

Dovremmo tutti chiederci perché, allora, quando una questione diventa di grande portata, abbiamo la tendenza a difendere i diritti dei gay, salvo poi dimenticarcene il giorno dopo. Che la causa LGBT+ sia diventata una tendenza?

Sicuramente è una buona strategia di marketing, come lo il movimento del body positivity che, seppur di diversa portata, era nato con tutt’altro scopo. E lo è per le influencer che ne parlano, per fare hype e cavalcare l’onda, lo è per le aziende, che dimostrano una grande apertura mentale, e lo è persino per i politici e per i governatori. Ma le contraddizioni sono davvero tante, troppe.

Ed è certo che si tratta di una manovra assai furba, perché i consensi si ottengono facilmente. Ma la realtà è che i benefici sono solo personali e non vanno certo a supportare i diritti LGBT+.

Persone, prodotti, Paesi e imprese si proclamano gay friendly al fine di essere percepiti come progressisti, moderni e tolleranti: così Sarah Schulman, in un editoriale sul New York Time, ha parlato del pinkwashing, un vero e proprio problema che rischia di spostare l’attenzione da quello che davvero conta.

Che potere abbiamo, noi, in tutto questo? Se davvero vogliamo sostenere e difendere la comunità LGBT+, dobbiamo imparare a pensare indipendentemente e liberamente e giudicare le persone, così come le aziende, i governi e i politici per ciò che fanno. Non per i colori che indossano.