Shamsia e Zakia il simbolo femminile della lotta ai Talebani

I Talebani hanno espugnato la città rastrellando le case alla ricerca di donne da utilizzare come bottino di guerra. Questa è la storia delle sopravvissute

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Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Immaginate di essere la prima donna street Artist Afgana, immaginate di esserlo a Kabul dopo che i Talebani sono riusciti a riprenderne possesso, rastrellando ogni casa alla ricerca di donne da utilizzare come bottino di guerra e da dare in spose ai propri combattenti, sommate tutte queste variabili ed uscirà anche il nome di Shamsia Hassani, classe 1988, artista, graffitista e professoressa di scultura all’Università, che da quel giorno vive in una località segreta per cercare di sfuggire alla cattura, ma decisa a rimanere nel suo paese di origine.

Quando i Talebani sono riusciti ad entrare a Kabul, nel giro di due ore la città è caduta, era il 16 agosto, io mi trovavo a Jesolo, ero al mare con mio figlio, per gli ultimi scampoli di ferie, in un attimo i social e i siti di informazione sono stati invasi dalle immagini di quella guerra silente e allo stesso tempo esplosiva, dalle richieste di aiuto di chi trovava solo e disperato, dopo aver collaborato con le forze occidentali e, soprattutto, da donne terrorizzate per il loro futuro. Un video tra tutti è stato quello che mi ha colpito maggiormente, mostrava una ragazzina piangente, ho guardato ed ascoltato le sue parole con le lacrime agli occhi, perché in pochi secondi è riuscita a trasmettere tutto il dolore e tutto l’orrore che, ogni essere umano e in particolare ogni donna, stesse provando.

I talebani hanno espugnato la città cancellando in un secondo quello che in questi venti anni la popolazione era riuscita a ricostruire, e ad ottenere, non ultima l’istruzione per il genere femminile, il fiume di gente che cerca di scappare, trovando la morte mentre cerca di rincorrere la vita, mi ha lacerato dentro. L’Occidente se ne va da Kabul e come dice questa ragazzina “scompariremo lentamente nella storia solo perché siamo nati in Afghanistan”.

Shamsia Hassani
Fonte: Getty Images
Shamsia Hassani

Tutto questo è profondamente e dolorosamente ingiusto, perché tutti sanno l’orrore che sta per accadere. Sono passati alcuni giorni ed il mio pensiero non si è mai allontanato da quei frame, mi sono spessa domandata se la poco più che bambina sia riuscita a mettersi in salvo, se sia riuscita ad arrivare all’aeroporto o se la sua fuga, come quella di molte altre studentesse sia stata ostacolata, proprio come una di loro aveva fatto sapere al Guardian: “Volevamo tutte tornare a casa, ma non potevamo usare i mezzi pubblici. Gli autisti non ci hanno fatto salire sulle loro auto perché non volevano assumersi la responsabilità del trasporto di una donna. Nel frattempo, gli uomini intorno si prendevano gioco di ragazze e donne, ridendo del nostro terrore. ‘Vai e mettiti il ​​chadari [burqa]’, grida uno. ‘Sono i tuoi ultimi giorni fuori per le strade, ha detto un altro. D’ora in avanti, le donne e le ragazze sopra i 12 anni sono considerate bottino di guerra. La prima cosa che io e le mie sorelle abbiamo fatto è stata nascondere i nostri documenti d’identità, diplomi e certificati. È stato devastante. Perché dovremmo nascondere le cose di cui dovremmo essere orgogliosi? In Afghanistan ora non ci è permesso essere conosciute come le persone che siamo.”

Eppure sono proprio le donne, quelle più vessate da questa invasione a scendere in campo per lottare per i propri diritti, come Shamsia Hassani che con i suoi lavori attacca frontalmente i talebani e si oppone all’oppressione del genere femminile. I suoi graffiti sono immagini potenti che mostrano spesso ragazze con gli occhi chiusi e senza bocca di fronte a miliziani in nero minacciosi e incombenti, simbolo della repressione che le afgane stanno vivendo in queste settimane terribili.

Una forma di lotta diventata virale attraverso i social che ne hanno amplificato la voce, proprio per chi, in questo momento, non ce l’ha, le sue donne “senza bocca” hanno urlato talmente forte da essere diventate il simbolo di chi non ha paura di lottare: “Voglio colorare i brutti ricordi della guerra e se coloro questi brutti ricordi, allora cancello la guerra dalla mente delle persone. Voglio rendere l’Afghanistan famoso per la sua arte, non per la sua guerra”, ha detto nell’ultima intervista rilasciata.

Shamsia Hassani
Fonte: IPA
Shamsia Hassani

Al suo fianco la protesta delle donne afgane in marcia con una bandiera di duecento metri per dire no al regime dei talebani che vorrebbe cancellare le conquiste degli ultimi anni e riportarle indietro con la storia. Poi troviamo Zakia Khodadadi, che sarebbe stata la prima donna paralimpica afghana, la cui partecipazione ai Giochi è stata messa in forse proprio dall’invasione e che il 17 agosto lanciò un appello alla comunità internazionale, un segnale importante per la condizione femminile in Afghanistan, a maggior ragione per le donne affette da disabilità.

Ebbene l’atleta è stata tratta in salvo, l’Australia le ha concesso un visto ed è stata prelevata dall’aeroporto di Kabul, queste le sue parole: “Vedo tutta la mia gente distrutta nel fuoco della guerra. Voglio combattere attraverso la mia disciplina sportiva per loro per dimostrare che lo sport vince su tutto. Ho inseguito il mio sogno per oltre nove anni e non mi fermerò mai. Aiutate me e la mia famiglia. Portateci in un posto sicuro e io mostrerò al mondo intero il mio talento.”

Perché le donne sono abituate a lottare, a dare la voce a chi non ce l’ha, a combattere per quello in credono, a rischiare la vita per i propri diritti e queste ragazze sono il futuro di generazioni che, grazie al loro esempio e alle loro battaglie, forse potranno continuare a studiare, ad uscire di casa da sole, ad andare in un bar senza bisogno di essere accompagnate, a mostrare il loro viso senza paura di essere picchiate o uccise, potranno continuare a vivere.

Per chi voglia mandare un aiuto concreto a queste popolazioni per l’emergenza Afghanistan segnalo la fondazione Pangea Onlus, perché, come dicono loro, La vita riparte da una donna.