Afghanistan, le donne in salvo sono un simbolo: non dimentichiamole

Dall'operazione fazzoletto rosso alla P di Pangea, non dimentichiamo le donne afghane

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Redazione

DiLei è il magazine femminile di Italiaonline lanciato a febbraio 2013, che parla a tutte le donne con occhi al 100% femminili.

Un fazzoletto rosso. Una P sulla mano. Ecco che cosa rimane delle donne riuscite a fuggire da Kabul. Per me, che sto scrivendo delle donne afghane da non dimenticare nella mia casa, al sicuro da ogni pericolo del mondo, è distante l’Afghanistan. Lo è anche per chi sta leggendo queste righe, magari sul divano, aspettando la cena, o sul letto, riposando dopo il lavoro. Per noi occidentali, quanto accaduto in Afghanistan è un’eco distante, un incubo che non sapremmo descrivere. E nemmeno affrontare. Le attiviste salvate dall’operazione fazzoletto rosso, le donne della onlus Pangea accolte in Italia e riconosciute per un segno, una P sulla mano sono un simbolo incredibile: ce l’hanno fatta contro ogni previsione.

Salvare, salvezza. Volti che non conosciamo, i loro, donne che non abbiamo mai visto, ma che sono nostre sorelle. No, non scorre lo stesso sangue. E non ha importanza. Perché di fronte all’orrore, non possiamo, non dobbiamo voltarci dall’altra parte. L’operazione fazzoletto rosso ha portato in salvo alcune attiviste che operavano a Kabul: tra di loro, per riconoscersi e per restare unite nella folla, hanno scelto un colore che spicca, il rosso. Segno di passione, di amore. Di vita, di cuori che battono. Di cuori che sperano.

Li chiamano i voli della speranza, e sono gli stessi dei video disperati che sono stati condivisi sui social media negli ultimi giorni. Aerei stipati di gente, di uomini, donne e bambini, di chi riesce a fuggire via. Per ore, però, se non giorni, aspettano di poter andare via, scappare dall’orrore. Da un incubo senza fine. Ammesso che riescano a scivolare nel silenzio della notte dalla guardia dei Talebani. Le donne che oggi sono scappate non sono le stesse di decine di anni fa. Hanno studiato, sono andate a lavorare, si sono rimboccate le maniche e hanno seguito l’educazione dei propri figli.

Qualcuna ha la patente, ha sconfitto la misoginia. C’è chi, nonostante volesse assaporare più libertà, era rimasta in Afghanistan per rendere la sua terra un posto migliore. Ci sono anche storie che tolgono il fiato, che lo mozzano, come quella di Salim, che è rimasto a Kabul per i suoi affari e che ha salutato la moglie: “So che con voi italiani sarà al sicuro”. Repubblica cita le sue parole, e non ci è davvero possibile pensare che cosa significhi dire addio alla persona che amiamo, con cui abbiamo trascorso anni della nostra vita. Fino a poco tempo fa, avevano tutta la vita davanti. Ora, pochi secondi, per un ultimo bacio, uno sguardo.

In queste ore concitate e cariche di tensione, si susseguono storie e speranze, come quelle delle donne di Pangea: le donne afghane della nota associazione milanese sono riuscite a trarsi in salvo, a giungere in Italia insieme alle loro famiglie. Una P sulla mano, per riconoscersi e per non perdersi, proprio come quel fazzoletto rosso. Sono stati giorni di grande apprensione, in cui la pagina ufficiale di Pangea ha condiviso continui aggiornamenti. Hanno dovuto bruciare i fogli con le identità di tante donne aiutate. Per preservarle. Per impedire che fossero prese, come un oggetto. O peggio.

Parliamo di donne che non si sono inchinate, che hanno voluto cambiare il loro paese, che non l’hanno abbandonato. Molte di loro, non appena giunte in Italia, hanno riaperto i profili social e hanno inserito nuovamente la loro foto profilo su Whatsapp. “Si sono riappropriate della loro identità”, scrive Pangea su Instagram. Possiamo davvero immaginare una cosa simile, senza avere freddo? Senza sentire la morsa dell’imbarazzo? Quante volte abbiamo letto che siamo nate dalla parte “giusta” del mondo?

Mille splendidi soli risorgeranno a Kabul un giorno. E avranno il volto delle donne che non ce l’hanno fatta. Guardando l’infinito dell’universo, un giorno Kabul piangerà e tributerà ognuna di loro, nel silenzio assordante di una violenza inaudita che si è consumata sotto un pezzo di cielo che stava cercando di riprendersi, di assaporare la libertà. Una vita migliore, priva di paura e di costrizioni.

Non dimentichiamo oggi le nostre sorelle, le donne che sono riuscite a scappare, le donne che non ce l’hanno fatta e quelle che ancora sperano in un futuro libero dagli incubi. Non dimentichiamole, anche se non conosciamo il loro nome, la loro storia, il loro volto. Le donne che si sono salvate, oggi sono un simbolo: non dimentichiamole. Perché se è vero che è distante l’Afghanistan con i suoi mille soli splendenti, è vero che l’umanità è qui, nel cuore di ciascuna di noi. E dobbiamo serbarla cara.