2 luglio 1983: il massacro di Ponticelli. Un giallo lungo 40 anni

Il 2 luglio del 1983 due bambine di 7 e 10 anni vengono violentate, torturate e uccise. I colpevoli vengono condannati all'ergastolo ma c'è chi sostiene la loro innocenza

Foto di Sabina Petrazzuolo

Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Il 12 marzo del 2023 il programma Le Iene presentano Inside ha acceso i riflettori su uno dei casi di cronaca nera più controversi e drammatici del nostro Paese, quello del massacro di Ponticelli. Giulio Golia, con la sua inchiesta, ha ripercorso davanti al pubblico italiano i 40 anni che hanno caratterizzato una delle vicende giudiziarie più discusse del nostro secolo scandagliando le prove, analizzando i verbali, ascoltando i testimoni ancora in vita e ripercorrendo i processi.

Lo ha fatto perché a distanza di tutto questo tempo, e dopo aver scontato la loro pena, quei tre ragazzi condannati – ormai diventati uomini – si sono sempre dichiarati innocenti, oggi come allora. Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo non hanno seviziato, stuprato e ucciso Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, rispettivamente di 7 e 10 anni, o almeno è questo che hanno sempre affermato.

Mostri o innocenti? È questa la domanda alla quale l’inchiesta sul massacro di Ponticelli prova a rispondere, la stessa che si pongono in tanti. Perché il rischio che quella condanna per omicidio inflitta ai tre ragazzi sia in realtà un clamoroso errore giudiziario, e da qualche parte ci sia ancora un pedofilo assassino a piede libero, c’è ed è reale.

2 luglio 1983: il massacro di Ponticelli

È il 1983 e tutto scorre come sempre a Ponticelli, nel quartiere di Napoli situato nella zona orientale della città. I grandi vanno a lavoro, i più piccoli si riuniscono tra le piazze e le strade a immaginare le imminenti vacanze estive. Non ci sono smartphone, non esistono i social ma c’è la compagnia di chi si conosce da una vita e quella basta.

È una sera come un’altra, quella del 2 luglio. Alcuni sono già rientrati a casa, altri si sono dati appuntamento nella discoteca della città. Nessuno sa però, che da qualche parte nel quartiere, due bambine sono state rapite e seviziate. Stuprate e uccise. Si tratta di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, rispettivamente di 7 e 10 anni. Ma chi può aver commesso un crimine così atroce?

Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, le due bambine escono di casa quella sera del 2 luglio alle ore 19:30. Non per giocare con le altre amiche del quartiere, ma per incontrare Gino, un uomo che chiamano “Tarzan tutte lentiggini” e che gli ha promesso di portarle a fare un giro in macchina. A raccontarlo, dopo, sarà Silvana Sasso, anche lei invitata a quell’appuntamento, ma impossibilitata ad andarci per volere della nonna.

L’ultimo avvistamento delle due risale proprio a quella sera. Antonella Mastrillo, un’altra loro amica, le vede allontanarsi a bordo di una Fiat 500 dal colore blu con un fanalino rotto e un cartello “vendesi” sul retro. Dettagli, questi, che si spera possano aiutare le forze dell’ordine a individuare al più presto il colpevole.

Passa appena un’ora e non vedendo rientrare le bambine a casa, scatta il primo allarme. Ponticelli non è poi così grande, è nel Rione Incis dove tutti si conoscono e sono pronti ad aiutarsi e a supportarsi. Così si uniscono tutti alle ricerche, ma nessuno può immaginare quale verità sta per emergere.

Intanto, però, una puzza acre e intensa si diffonde per il quartiere. Pare sia scoppiato un incendio in una strada secondaria nascosta da un sottopasso. Nessuno ci dà peso, almeno all’inizio, ma la curiosità è tanta e l’indomani alcuni giovani del quartiere si danno appuntamento proprio lì, nel luogo dove spesso i clan camorristici organizzano corse clandestine di cavalli, per scoprire cosa è successo.

Il 3 luglio, alle ore 12, l‘enigma si risolve. Le forze dell’ordine giungono nei pressi del canalone del sottopasso dopo una segnalazione: è lì che scoprono i corpi carbonizzati di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.

Sellini e Nunzia Munizzi
Fonte: ANSA
Barbara Sellini e Nunzia Munizzi

Chi ha ucciso Barbara e Nunzia?

L’autopsia effettuata su quel che resta dei corpi delle due bambine rivela una verità agghiacciante. Barbara e Nunzia sono state violentate e torturate con uno strumento affilato, probabilmente un coltello. Poi uccise. Il killer avrebbe messo i corpi delle bambine vicine, quasi a simulare un abbraccio, prima di mettere in scena l’ultimo folle atto: bruciarle.

Le prime ipotesi si concentrano sulla ricerca di un solo assassino. Un uomo, un pedofilo, con dei chiari disturbi psicologici. Una tesi, questa, avvallata anche dalle testimonianze delle amiche delle vittime. Silvana Sasso, infatti, parla di quell’appuntamento con “Tarzan tutte lentiggini”, lo stesso alla quale anche lei avrebbe dovuto partecipare. Ma il destino, o meglio la prudenza della donna, le ha salvato la vita. Anche Antonella Mastrillo, altra testimone, dichiara di aver visto le sue amiche bordo di un auto (la famosa 500 blu) guidata da un solo uomo.

Eppure, nonostante gli indizi portino a quell’uomo di cui ancora non si conosce l’identità, le indagini subiscono una svolta inaspettata. Nella Caserma Pastrengo vengono invitati a testimoniare tutti i ragazzi del quartiere: qualcuno deve per forza aver visto qualcosa. Ci sono ragazze e ragazzi, minorenni e genitori, ci sono persone estranee ai fatti, ma tutto è utile per ricostruire quello che è successo il 2 luglio.

Le testimonianze raccolte fino a questo momento sembrano condurre tutte a Corrado Enrico, un venditore ambulante della zona dalla corporatura molto robusta che si fa chiamare Gino. L’uomo, possessore di una Fiat 500 in vendita, dal colore blu e col fanale rotto, è già noto alle forze dell’ordine. Ha molestato dei bambini proprio lì, nel sottopasso dove sono stati ritrovati i corpi di Barbara e Nunzia. Non ha un alibi, perché il suo è stato smentito da sua moglie. Inoltre, proprio quel giorno di luglio, si trovava a Ponticelli.

Eppure le forze dell’ordine scelgono di rilasciare l’uomo, e di dare a lui il tempo di demolire quella Fiat 500 che, fino a quel momento, era in vendita. Non ci sono più prove e la verità sembra ancora lontana. Ecco che allora, dopo i tanti appelli disperati dei genitori delle vittime, la polizia sceglie di agire. Ma non arresta Corrado Enrico come si può immaginare. La colpa, infatti, ricade su tre amici, tre ragazzi incensurati di circa 20 anni. Si tratta di Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo. Insieme a loro anche Aniello Schiavo e Andrea Formisano che, invece, vengono accusati di favoreggiamento.

Qual è la verità?

L’arresto dei tre ragazzi fa scalpore e l’opinione pubblica si spacca: c’è chi crede ancora nella loro innocenza. Chi li conosce bene sa che non commetterebbero mai una tale atrocità, ma non è il pensiero della gente a rendere le persone innocenti, quanto le prove. E quelle dicono che i tre erano altrove quella sera. I testimoni lo confermano.

Ma dall’altra parte c’è anche chi, disperato, ha bisogno di un colpevole, di un mostro sul quale riversare tutto l’odio e il dolore per due morti drammatiche e prive di senso. Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo diventano i mostri di Ponticelli.

Il processo non può non tenere conto dell’opinione pubblica. Anzi, questa sarà così influente da cambiare ogni cosa. Nelle macchine dei presunti assassini non ci sono tracce di sangue, né indizi biologici. Nessuno ha una Fiat 500 blu con il fanale rotto. Silvana Sasso descrive un uomo grande con il viso cosparso di lentiggini, nessuno dei tre ragazzi le ha. Inoltre la bambina non riconosce nessuno dei tre come “Tarzan tutte lentiggini”.

Le prove sono sommarie, del tutto assenti potremmo dire, eppure la polizia, così come il quartiere ha bisogno di un colpevole. Anzi di tre. Ecco che allora arriva la testimonianza chiave, quella di Carmine Mastrillo, fratello di Antonella. Il giovane, dopo un interrogatorio estenuante, fa i nomi di Ciro, Giuseppe e Luigi: sono stati loro a uccidere le bambine del quartiere e poi a confessare l’omicidio al ragazzo quella sera stessa, alle ore 20.30, in una disco.

Ma gli orari non coincidono e troppe cose sono lasciate al caso. Carmine ritratterà la sua testimonianza in tribunale nel 1986, in Corte d’Assise a Napoli, dichiarando di averli accusati solo per la forte pressione subita durante gli interrogatori (la stessa alla quale saranno sottoposti molti giovani del quartiere). Ma quella confessione costa al ragazzo una minaccia d’arresto da parte del Pubblico Ministero. Così torna l’accusa, Carmine si giustificherà poi dicendo di aver subito delle minacce dai tre presunti assassini.

Le cose non tornano, ma ormai tutto è stato deciso. Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo vengono accusati colpevoli di duplice omicidio e condannati all’ergastolo in primo, secondo e terzo grado di giudizio.

40 anni dopo

Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo vengono mandati nel carcere di massima sicurezza di Spoleto. Lì i tre amici, che si fanno forza a vicenda, restano a scontare l’ergastolo dichiarandosi, sempre innocenti. Al loro caso si interesserà anche Ferdinando Imposimato, magistrato ed ex giudice antimafia, che crede negli innocenza dei tre. E non è l’unico.

I ragazzi, nel corso degli anni, chiederanno la revisione del processo per ben tre volte e tutte tre questa gli sarà negata. Rinunciano a qualsiasi eventuale richiesta di risarcimento, che gli spetterebbe per ingiusta detenzione, pur di uscire dal carcere e dimostrare la loro innocenza. Pur di arrivare alla verità. Ma anche questo tentativo si rivelerà fallimentare.

Nel 2010, dopo aver scontato 27 anni di carcere, Ciro, Giuseppe e Luigi vengono rilasciati per buona condotta. Corrado Enrico, il cui profilo corrispondeva presumibilmente a quello dell’assassino, è morto.

Nonostante i tre abbiano scontato la loro pena, e siano riusciti a farsi una vita, oggi combattono ancora per la libertà. Lo fanno perché sono stati privati ingiustamente di 27 anni della loro vita, perché per anni hanno dovuto convivere con il peso delle accuse di un Paese intero. E lo fanno perché non c’è stata giustizia per quelle povere bambine torturate e uccise.

Sostenuti dalla Commissione Antimafia, che crede nella loro piena innocenza, i tre continuano a chiedere che venga riaperto il caso per risolvere un giallo che dura 40 anni e che sembra un clamoroso errore giudiziario. Nell’agosto 2023 la Procura di Napoli ha deciso di aprire una nuova inchiesta.

Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo
Fonte: ANSA
Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo