Quando Diletta Leotta è apparsa sulla scalinata del 70esimo Festival di Sanremo, abbiamo pensato tutti quanto fosse bella. Fasciata in un abito giallo Etro, capello biondo e boccoloso, scollatura a sfidare le leggi della gravità e viso disegnato, è stata una visione. Poi ha cominciato a parlare, e la bellezza è stata -quasi- oscurata dalla sua disinvoltura. Finalmente una ragazza che sa stare sul palco, conosce i tempi televisivi, si muove con sicurezza. In un attimo Diletta ha convinto tutti e oggi i primi titoli dei quotidiani, accanto al monologo toccante di Rula Jabreal, avrebbero scritto della bravura (e non solo dell’avvenenza) di Diletta. Sarebbe stata la sua vittoria.
E invece no: Diletta ha voluto conquistare il pubblico con un monologo sulla bellezza che capita e non è un merito. Ma che bisogna saper portare nel tempo, riuscendo ad essere “diversamente belle”. Perché lei, oggi, non ha paura: del tempo, delle rughe, dell’invecchiare. Tutto sacrosanto, ma detto da lei, che stando alle prove d’archivio, non era felice della bellezza che le era capitata, e paura ne aveva eccome, è suonato quasi blasfemo.
Perché Diletta? Perché bruciare tutto con 7 minuti di ipocrisia? Perché non limitarsi a mostrarsi per quello che si è, bellissima anche se di una bellezza non “capitata”, ma cercata e voluta, e brava nello stare davanti alle telecamere come sai fare benissimo?
Perché insistere sul fatto che devi solo alla tua “bonaggine” la presenza a Sanremo, quando una (altrettanto bella) Rula Jabreal commuoveva con un monologo- quello sì, davvero sincero- sulla violenza contro le donne, dimostrando quel valore aggiunto che fa la differenza dalle belle statuine, quel “diversamente” bella da te tanto decantato.
Perché non raccontare le tue vere paure, che magari hai superato, ma che a 18 anni ti hanno portata a fare determinate scelte. Come le hai superate, se le hai superate. Perché non è proprio vero che non hai, o non hai avuto, paura. E se lo avessi confessato, ti avremmo amata ancora di più.