Empatia, quanto è importante la sintonia tra medico e paziente

La capacità del medico di creare fiducia nel paziente con la giusta comunicazione migliora la diagnosi e aiuta nelle cure

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Dobbiamo sottoporci ad un esame. Dobbiamo sentirci comunicare una diagnosi. Dobbiamo trovare la forza per andare incontro nel modo giusto ad una malattia. In queste circostanze della vita di ogni giorno, ad aiutarci c’è spesso la capacità del medico di saperci coinvolgere nel modo più giusto in quello che diventa un percorso di salute. Insomma, abbiamo bisogno di empatia. Di trovare umanità, capacità d’ascolto, desiderio di dedicare tempo al nostro benessere in chi ha il camice bianco.

Tecnicamente stiamo parlando di ‘soft skills’. Ma in medicina sono quel plus che può fare la differenza, a parità di preparazione scientifica. Lo confermano gli esperti della Società Italiana di Medicina Interna, che dedica all’argomento una sessione del congresso nazionale a Rimini.

Il peso di una giusta relazione medico-paziente

Quando si parla di competenze mediche, a volte empatia, capacità di ascolto e comunicazione forse non rappresentano requisiti essenziali per fare il medico. Ma di certo fanno la differenza nell’instaurare una solida relazione medico-paziente. Che può avere ricadute importanti anche sugli esiti del trattamento ed è alla base dell’effetto ‘placebo’, ma anche di quello ‘nocebo’.

La comunicazione empatica è parte fondante del percorso di cura, aumenta la fiducia del paziente, la compliance, migliora le diagnosi e protegge il sanitario dal rischio di burn out. E soprattutto ha un solido substrato neuro-scientifico, essendo state individuate aree cerebrali deputate all’empatia. Lo stress e carichi eccessivi di lavoro invece aumentano il rischio di cancellare l’empatia nella relazione medico-paziente, portando ad una ‘deumanizzazione difensiva’ che influisce sul medico stesso ed alla fine porta ad una minor soddisfazione del malato.

La capacità di comunicare non è innata

“Sino agli anni ‘80 dello scorso secolo – ricorda Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Medicina Interna (SIMI) – era opinione prevalente che lo stile comunicativo del medico durante la visita fosse ‘innato’ o, al meglio, appreso per imitazione dai maestri, presso cui il professionista si formava. Negli anni successivi questa prospettiva si è progressivamente modificata sotto la spinta della dimostrazione che alcuni stili comunicativi attenti al vissuto del paziente sono più efficaci di altri nel determinare risultati clinici quali la soddisfazione dei pazienti al termine delle visite o la loro aderenza ai trattamenti proposti.

I medici commettono spesso l’errore di focalizzarsi sulla condizione medica e sui risultati della cura fornita piuttosto che sugli aspetti psico-sociali che possono interessare una persona con una patologia cronica. Per anni il linguaggio utilizzato nel colloquio con le persone affetta da patologie croniche ha avuto caratteri di giudizio e colpevolizzazione e non ha tenuto in considerazione i loro bisogni e le loro opinioni. Dovremmo sempre ricordare che molti di noi non vivono la vita delle persone con patologie croniche ed essere più consapevoli dell’impatto delle nostre parole”.

La tecnologia influisce sul rapporto medico-paziente

Da un lato, negli ultimi tempi, il ricorso alle tecnologie diagnostiche che portano sempre più ad utilizzare strumenti in aggiunta alla semplice “visita” del professionista si è dimostrato di grande utilità. Ma forse, c’è il rischio che l’eccessiva tecnicalità tolga qualcosa in termini di valore della parola. “In un mondo dominato dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale – commenta Nicola Montano, presidente eletto della Società Italiana di Medicina Interna – non possiamo dimenticare che la comunicazione è molto importante nei rapporti umani in generale e fondamentale nel rapporto medico-paziente. Una persona può avere più o meno attitudine all’empatia, ma di certo si può cercare di svilupparla”.

Attenzione alla comunicazione non verbale

Al di là delle parole, quello che facciamo con i gesti e con le posture può influenzare molto la relazione. Cosa cambia ad esempio se il medico ‘tocca’ il paziente? “Uno studio americano ha dimostrato che se il medico dopo aver fatto una prescrizione di un antibiotico, poggia la mano sulla spalla del paziente, dicendogli magari ‘mi raccomando’, l’aderenza alla terapia risulta molto maggiore – fa sapere Alfonso Troisi, docente  di Psichiatria all’Università ‘Tor Vergata’ di Roma.

Piccoli elementi di comunicazione non verbale migliorano la relazione. È molto importante nella comunicazione non verbale che il medico dimostri attenzione a quello che dice il paziente, ad esempio mantenendo il contatto oculare, guardando negli occhi il paziente. Importante anche avere la capacità di modulare i tempi di intervento. Spesso i medici, anche perché pressati dal contesto, tendono ad interrompere il paziente facendo continuamente delle domande che rispettano il loro schema di raccolta delle informazioni; ma questo per il paziente può essere frustrante perché alcuni hanno bisogno di raccontare i loro sintomi in un certo modo; lasciar loro il tempo di farlo mette le cose su un piano di maggior alleanza e comunicazione”.

Il medico inoltre deve saper decodificare anche il comportamento non verbale del paziente. Bisogna ad esempio imparare a conoscere anche quei comportanti non verbali che esprimono disagio e stress anche se questo non viene manifestato a livello verbale. Sono i comportamenti di auto-contatto come grattarsi o mettersi le mani tra i capelli che indicano che la persona sta provando una situazione di disagio, indipendentemente da quello che dice. Importante è anche chiedere alla persona cose che non hanno a che vedere solo con la malattia.

Cosa succede alla psiche quando parliamo con il medico

“L’elemento di novità scientifica emerso negli ultimi 20 anni – ricorda Troisi – è che gli effetti della relazione medico-paziente possono essere documentati anche in termini biologici perché possono avere ricadute sul sistema immunitario, sulle variazioni ormonali e dei neurotrasmettitori. Non si tratta insomma di un effetto esclusivamente ‘etico’, ma di qualcosa che può condizionare la maggior o minore efficacia delle terapie che vengono messe in atto. Il medico è un professionista con elevate conoscenze scientifiche, ma non può non tener conto del contesto della relazione. Queste conoscenze devono dunque entrare nella formazione dei nuovi medici e nella epistemologia della medicina contemporanea”.

Insomma: meglio fare attenzione ai medici cinici anche se preparatissimi come il Dr. House perché per curare servono anche doti di empatia. Il motivo? Anche l’effetto placebo e nocebo sono infatti molto influenzati dalla relazione medico-paziente. “Sull’effetto placebo – prosegue Troisi – è stata condotta una pletora di studi che lo quantificano come elemento responsabile del 40-80% del successo di una terapia. Per l’effetto nocebo invece non disponiamo di stime analoghe, forse perché i medici non amano occuparsi delle ricadute negative dei loro comportamenti”.

Attenzione però. In psichiatria ci sono esempi di psicoterapie dimostratesi dannose per il paziente. È il caso ad esempio dei pompieri dell’11/9 o delle persone travolte dalla pandemia di Covid-19, sottoposti a interventi di ‘debriefing’ o di ‘defusing’ (disinnesco) che consistono nell’aiutare le persone che abbiano avuto un coinvolgimento traumatico in un certo evento a rielaborare i ricordi e le emozioni vissute in quelle situazioni. Bene, è stato dimostrato che questi interventi peggiorano la prognosi portando queste persone a sviluppare un disturbo post-traumatico da stress a distanza di mesi, mentre quelli lasciati ad un’elaborazione individuale, spesso stanno molto meglio.

L’importanza di una corretta relazione

“L’uomo è nato per essere in relazione – segnala Elena Pattini, dirigente Psicologo-Psicoterapeuta Ausl Parma e professore a contratto Università degli Studi di Parma. Possediamo addirittura aree cerebrali specifiche per l’empatia che ci consentono di entrare in connessione con le emozioni degli altri e comprenderle. All’interno di questa cornice neuro-scientifica la comunicazione empatica diventa parte fondante del percorso di cura, aumenta la fiducia del paziente, la compliance, migliora le diagnosi e protegge il sanitario dal rischio di burn-out. I pazienti giudicano il saper rassicurare, mostrare comprensione, spiegare la procedura, non ignorare la loro preoccupazione, skills fondamentali per un sanitario.

Tuttavia, nel contesto professionale attuale, lo stress e il carico eccessivo di lavoro aumentano il rischio di ‘deumanizzazione difensiva’ che può portare ad un maggiore “disengagement” del medico e ad una diminuzione della patient satisfaction.  Conoscere dunque le tecniche di comunicazione empatica e i suoi effetti a livello comportamentale e neurofisiologico consente di affrontare la presa in carico del paziente in un’ottica bio-psico-sociale, che tiene conto non solo del corpo, ma anche degli effetti psicologici dell’essere in una condizione di fragilità. In questo modo l’empatia diventa un fattore protettivo per la relazione di cura e per il benessere psico-fisico sia del medico che del paziente”.

Fonti bibliografiche

SIMI – Società Italiana di Medicina Interna