Alzheimer e donne, il (possibile) ruolo degli ormoni

Al vaglio il possibile legame tra Alzheimer e i mutamenti ormonali che si accompagnano all'epoca della menopausa

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Pubblicato: 22 Luglio 2020 18:59

Le cifre non lasciano spazio a dubbi. Su scala mondiale la “nebbia” che cala sul cervello facendo dimenticare affetti, ricordi e altro si deposita più nelle donne rispetto agli uomini. E la scienza sta cercando di dare una spiegazione che vada oltre al fatto che le donne stesse, mediamente, vivono più a lungo dei maschi. Così è emersa un’ipotesi, celebrata in uno studio apparso su Neurology, secondo cui anche i mutamenti ormonali tipici della menopausa potrebbero – il condizionale è d’obbligo – agire su questo fronte.

Una ricerca approfondita

L’indagine è stata coordinata da Lisa Moscon della Weill Cornell Medicine, di New York. Lo studio ha preso in esame una popolazione di 85 donne e 36 uomini all’età di 52 anni, senza alcun problema cognitivo che potesse far sospettare un possibile problema di salute di tipo neurologico e soprattutto con medesime condizioni in termini di familiarità per malattia di Alzheimer e valori simili di pressione sanguigna, visto che l’ipertensione può rappresentare un problema per la salute cerebrale. Inoltre, anche i test cognitivi dei soggetti considerati avevano risultati simili.

Poi tutti i partecipanti hanno effettuato un percorso simile basato sull’analisi con Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), esame che consente di scoprire se ci sono aree cerebrali sui cui si sono manifestate placche, oltre ovviamente a risonanza magnetica funzionale. Considerando specifici parametri, come ad esempio la velocità di metabolizzazione del glucosio da parte del cervello e il volume della materia bianca e grigia cerebrale, oltre ovviamente ai livelli di placche con deposito di proteine beta-amiloide quando presenti, gli studiosi si sono accorti che i punteggi della popolazione femminile erano più bassi.

In particolare, nel cervello femminile c’erano più placche (30 per cento in più) rispetto ai maschi e più di un quinto in meno di efficacia del metabolismo del glucosio da parte del cervello, sempre in confronto ai coetanei uomini. L’ipotesi di lavoro degli esperti americani, valutando questi quadri, è che possa essere sospettato un possibile ruolo dei mutamenti ormonali che si accompagnano all’epoca della menopausa, con il calo degli ormoni estrogeni che fa parte di questo periodo della vita.

A spiegare questo fenomeno, tra l’altro, ci sarebbe anche la sovrapposizione anatomica delle aree maggiormente interessate dalle risposte legate proprio a questi ormoni. Ovviamente, vale la pena di ricordarlo, si tratta solo di un’ipotesi di lavoro e non di una certezza scientifica, anche per l’esiguo numero di soggetti considerati.

Identikit della malattia

La malattia di Alzheimer è stata descritta per la prima volta da Alois Alzheimer il 4 novembre 1906 su una donna di Francoforte con una grave forma di demenza progressiva. I segnali d’allarme più classici sono legati al decadimento cognitivo e alla perdita della memoria, in un percorso che purtroppo tende ad aggravarsi nel tempo. Nelle forme più gravi in pratica il malato si distacca completamente dal mondo, con difficoltà a mantenere i ricordi ed anche a riconoscere gli affetti.

Le ricerche dicono che i primi segni della malattia possono esserci già 20 anni prima dell’inizio dei sintomi. Per questo è fondamentale riconoscere per tempo le persone a rischio anche se ad oggi si può fare un trattamento limitato ai problemi causati dalla patologia, e non alla sua causa. Ma la ricerca va avanti.

L’obiettivo delle cure in fase di studio attuali passa ad esempio attraverso anticorpi monoclonali, capaci di “legare” la proteina beta-amiloide che si deposita nel cervello. Ci sono anche speranze legate al possibile impiego di farmaci già disponibili con questa indicazione, come emerge da una ricerca dell`Istituto di ricerca Santa Lucia di Roma, in collaborazione con l`Università di Roma Tor Vergata, pubblicata su Jama Nwtwork Open: gli scienziati hanno scoperto che un farmaco normalmente impiegato per la malattia di Parkinson potrebbe essere utile in soggetti con patologie degenerativa in fase iniziale. Ma per ora è solo una speranza.