Si può essere felici sul lavoro? La risposta della psicologa

Lavorare e stare bene non si escludono: ecco cosa influenza la felicità lavorativa, tra psicologia, dati e pratiche.

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Donatella Ruggeri

Psicologa

Psicologa, fondatrice di “Settimana del Cervello”. È una nomade digitale: lavora da remoto e lo fa viaggiando.

Pubblicato: 4 Giugno 2025 15:14

Secondo l’Osservatorio 2024 “BenEssere e Felicità in Azienda”, il 49% degli italiani si dichiara felice per il lavoro che svolge. Ma solo il 5% afferma di sentirsi davvero felice su tutti i fronti: fisico, psicologico e relazionale.

Questo ci suggerisce che la felicità sul lavoro non è irraggiungibile, ma nemmeno una condizione da dare per scontata.

Che poi, che cosa intendiamo per felicità? E in che modo possiamo favorire questo sentimento sul luogo di lavoro? Mettiamo insieme i pezzi.

Cosa significa “felicità” secondo la psicologia

Secondo la psicologa Sonja Lyubomirsky, la felicità è un mix complesso di emozioni positive che comprendono soddisfazione verso la propria vita, senso di energia e di connessione sociale.

Un benessere soggettivo – molto diverso dal “semplice sopravvivere” o tollerare la routine quotidiana – che consiste nel sentirsi bene, realizzate, persino ispirate da ciò che facciamo.

Per approfondire un po’, una delle teorie più interessanti è la Self-Determination Theory di Deci e Ryan. Secondo i due studiosi, la felicità nasce dal soddisfacimento di tre bisogni fondamentali:

  • autonomia, ovvero sentire di avere controllo sulle proprie scelte;
  • competenza, cioè sentirsi capaci, efficaci, all’altezza;
  • relazioni, sentirsi connessi, apprezzati e supportati.

Tutti e tre questi bisogni possono essere appagati o, al contrario, frustrati, nel contesto personale tanto quanto in quello lavorativo, e probabilmente leggendoli già ti sono venuti in mente episodi o situazioni in cui questi bisogni non vengono soddisfatti.

Non stiamo poi così bene

Oltre alle teorie, ci sono i dati, e i numeri dell’ultimo anno non sono incoraggianti.

L’Italia è ultima in Europa per soddisfazione lavorativa: solo il 43% dei lavoratori considera la propria azienda un ottimo posto in cui stare, contro una media europea del 59%.

E poi, come dicevamo:

  • solo il 5% degli italiani si sente davvero felice su tutti i fronti;
  • solo il 9% sta bene nel proprio impiego a livello fisico, psicologico e relazionale;
  • il 42% ha cambiato o vuole cambiare lavoro per migliorare il proprio benessere mentale e fisico.

E ancora: secondo il Global Talent Barometer 2024, il 58% degli italiani si dichiara soddisfatto del proprio lavoro, ma il 53% sperimenta stress quotidiano. A livello globale, il Global Work Wellbeing Report 2024 racconta che solo il 22% dei lavoratori si considera davvero “fiorente”, mentre il 59% riferisce livelli di stress elevati e continui.

Insomma, siamo piuttosto lontani da un quadro ideale, soprattutto se consideriamo che il lavoro occupa una parte enorme della nostra vita…

Cosa rende felici (o infelici) sul lavoro?

Che cos’è che fa davvero la differenza? Perché ci sono persone che riescono a sorridere anche il lunedì mattina?

Le ricerche ci danno alcune risposte, secondo le quali i fattori che aumentano la felicità sul lavoro includono:

  • senso e scopo: sentirsi utili, parte di qualcosa di più grande;
  • allineamento con i valori personali: lavorare in un ambiente che rispecchia ciò in cui crediamo;
  • bilanciamento vita-lavoro: avere tempo per sé, per le relazioni… per vivere;
  • opportunità di crescita: imparare, evolvere, essere valorizzati;
  • relazioni positive: avere colleghe e colleghi di cui fidarsi e un ambiente umano;
  • modalità di lavoro flessibile: il lavoro ibrido e remoto migliorano l’equilibrio percepito;
  • ascolto e riconoscimento: sentirsi viste, ascoltate, riconosciute per il proprio impegno.

Proprio su quest’ultimo punto: secondo un report di Great Place to Work, meno di un manager su due valorizza davvero i suggerimenti delle persone con cui lavora. Eppure, il sentirsi ascoltati e coinvolti può fare la differenza tra un ambiente opprimente e uno stimolante.

Un altro dato interessante riguarda l’impegno nelle iniziative di sostenibilità aziendale: sembra che le persone coinvolte in progetti di impatto sociale dichiarino livelli di felicità più alti del 24%. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che il senso di contribuire a un bene comune nutre il bisogno tutto umano di significato.

Essere infelici a lavoro ha delle conseguenze

Voglio prevenire le critiche: parlare di felicità sul luogo di lavoro non è un vezzo da privilegiati, né un’aspirazione ingenua o inutile.

È, al contrario, un passaggio fondamentale per scardinare una visione ormai superata del lavoro come puro sacrificio, come fatica da sopportare in silenzio per guadagnarsi la sopravvivenza o il tempo libero.

Per troppo tempo abbiamo considerato la sofferenza lavorativa come qualcosa di normale, quasi inevitabile. Ma oggi sappiamo che non è così e sappiamo anche che l’infelicità sul lavoro non è soltanto un problema individuale: ha un impatto concreto e pesante su tutta la struttura sociale ed economica che ci circonda.

Quando lavoriamo in un ambiente negativo, che ci fa sentire inadeguate, sotto pressione o invisibili, il prezzo che paghiamo è molto alto. Le conseguenze si vedono nei numeri, ma soprattutto nelle vite delle persone.

Sempre più spesso, chi non si sente bene nel proprio impiego sceglie di andarsene: secondo i dati, il 42% degli italiani ha già cambiato o intende cambiare lavoro per motivi legati al benessere psicologico e fisico. Questo però non garantisce necessariamente un miglioramento della situazione. Infatti, in molti casi, si verifica il cosiddetto Great Regret: più della metà di chi ha lasciato il proprio lavoro negli ultimi dodici mesi (il 56%, per l’esattezza) si è già pentito della scelta poiché adesso si trova in un contesto sì diverso, ma non migliore.

L’infelicità lavorativa incide anche sulla produttività: quando ci sentiamo svuotate, non riconosciute, demotivate, è difficile collaborare con le altre persone, essere creative e sentirsi parte di qualcosa.

Lavorare si riduce a un compito da portare a termine e ciò comporta anche un aumento significativo dello stress, che si riflette non solo nella nostra salute mentale, ma anche nel sonno, nelle relazioni personali e nella capacità di affrontare la quotidianità.

In casi più gravi, l’infelicità può trasformarsi in esaurimento, in assenteismo cronico o in burnout. E tutto questo come è facile immaginare non riguarda solo chi ne soffre in prima persona, ma anche le aziende, le organizzazioni e l’economia nel suo complesso.

Essere felici sul lavoro, dunque, non è un lusso, ma una necessità che dovrebbe diventare una priorità tanto per chi gestisce le persone quanto per chi ogni giorno si mette in gioco in ufficio, in negozio, in cantiere e a casa.

Come aumentare la propria felicità lavorativa

Se ti stai chiedendo se si possa cambiare rotta, la risposta è sì. Anche se il contesto esterno ha il ruolo e il peso più importante, ci sono strategie personali e scelte organizzative che possono migliorare la situazione.

Partiamo dall’azienda. Quando si parla di felicità sul lavoro, il ruolo delle aziende è centrale perché anche se la soddisfazione personale parte da dentro, è altrettanto vero che l’ambiente che ci circonda può facilitarla o renderla estremamente difficile.

Cosa può fare l’azienda

Cosa può fare, quindi, un’organizzazione per contribuire al benessere di chi ci lavora?

Innanzitutto, può creare ambienti psicologicamente sicuri, ovvero dare spazio all’ascolto, permettere alle persone di esprimere idee, emozioni e difficoltà senza timore di essere giudicate o penalizzate. In un ambiente psicologicamente sicuro, ad esempio, una persona giovane può dire di avere dei dubbi su una procedura senza sentirsi incompetente; dei genitori possono chiedere flessibilità per gestire i figli senza temere ripercussioni sulla carriera; una persona che vive un momento difficile può prendersi del tempo senza doversi giustificare fino all’ultima virgola.

Un altro aspetto è offrire reali opportunità di crescita e riconoscimento, che non si traducono esclusivamente in promozioni e aumenti di stipendio (che pure sono importanti), ma anche in percorsi di formazione, affiancamenti, occasioni per sperimentarsi e sentirsi valorizzate. Riconoscere il contributo delle persone, anche con piccoli gesti, può fare una differenza enorme. Un ringraziamento pubblico, un feedback costruttivo, una parola detta al momento giusto possono rinforzare la motivazione più di qualsiasi sporadico bonus annuale.

Poi c’è il tema della flessibilità, flessibilità reale, ovvero adattarsi alla vita delle persone e non costringerle a incastrarsi in schemi e regolamenti rigidi e senza senso. Vuol dire, ad esempio, poter lavorare da casa se ci si concentra meglio, modulare gli orari per accompagnare un familiare, scegliere il proprio ritmo nei momenti di maggiore creatività; sono tutti elementi che trasmettono fiducia e rispetto.

Le aziende possono anche scegliere di valorizzare il benessere come priorità e passare da una logica di “welfare cosmetico” (la palestra aziendale, il massaggio settimanale, il cesto natalizio) a una vera cultura del benessere in cui, ad esempio, le persone con ruolo manageriale vengono formate sull’intelligenza emotiva, vengono rivisti i carichi di lavoro per prevenire lo stress da sovraccarico, viene offerto uno sportello psicologico e vengono promuovere pause regolari e in generale pratiche di cura personale.

Infine, un’organizzazione attenta al benessere non può ignorare il contesto in cui opera. Integrare la sostenibilità nei valori e nelle azioni quotidiane non è solo una questione ambientale, ma anche etica, sociale e relazionale. Le persone vogliono lavorare per realtà che rispecchiano i propri valori: un’azienda che adotta pratiche sostenibili, che si impegna nel territorio, che sceglie fornitori responsabili, che promuove la diversità, trasmette un senso di scopo e appartenenza che, per ciò che sappiamo, ha un impatto diretto sulla felicità delle persone.

Rendere il lavoro un luogo di benessere non è solo possibile: è anche conveniente. Perché quando le persone stanno bene, anche le aziende stanno meglio.

Cosa puoi fare tu

Se da un lato le aziende hanno una grande responsabilità nel creare ambienti sani e motivanti, dall’altro anche noi – come persone – abbiamo un ruolo attivo nella costruzione della nostra felicità lavorativa. Non sempre possiamo cambiare ciò che ci circonda, vero, ma possiamo cambiare il modo in cui ci stiamo dentro.

Il primo passo consiste nell’iniziare a domandarsi, e rispondersi con onestà e concretezza, cosa ci fa stare bene e cosa invece ci svuota. Dobbiamo smettere di dare per scontato il malessere e iniziare a riconoscerlo come un segnale che ci informa su di noi. Ci sono persone che si accorgono solo in vacanza, o nei fine settimana, di quanto siano stanche. Ecco, imparare a osservare come ci sentiamo durante la settimana, nelle varie attività, con le diverse persone, è l’inizio del cambio prospettiva.

Accanto alla consapevolezza, c’è il lavoro – altrettanto concreto e impegnativo – di gestire lo stress, non per eliminarlo del tutto (impossibile), ma per impedirgli di prendere il controllo.

Ognuno può trovare le strategie che funzionano meglio per sé. Per alcune è fare sport, per altre meditare dieci minuti al giorno, camminare, disconnettersi dai dispositivi per un’ora, scrivere su un quaderno: qualsiasi cosa funzioni per te.

E poi ci sono le relazioni. Non servono amici del cuore in ufficio, ma relazioni autentiche sì. Avere qualcuno con cui scambiare due parole sincere, qualcuno che ci fa sentire accolte anche in una giornata no, è uno dei fattori che incide di più sulla felicità.

Non sempre infatti si può scegliere con chi lavorare, però possiamo scegliere come esserci: con gentilezza, con ascolto e anche con umorismo, quando serve.

Un’altra competenza fondamentale, oggi più sdoganata ma non per questo più diffusa, è quella di imparare a dire no per proteggere i propri spazi e confini. Significa non accettare automaticamente ogni richiesta (nemmeno se arriva dai piani alti), non caricarsi di tutto per paura di deludere, non farsi trascinare in dinamiche tossiche e, quando necessario, chiedere supporto.

Infine, anche nei lavori più strutturati e ripetitivi, è possibile trovare piccoli spazi per esprimere i propri talenti e le proprie passioni. Che sia proporre un’idea, curare un dettaglio, dare un tocco personale a un progetto, questi gesti alimentano il senso di identità e di valore.

A volte ci si sente meglio non perché si è cambiato lavoro, ma perché si è cambiato il modo di viverlo. Infatti, non sempre abbiamo il potere di rivoluzionare il nostro contesto lavorativo. Ma possiamo allenarci a stare nel lavoro in modo più sano, più presente, più allineato a chi siamo. E questo, giorno dopo giorno, può renderci più felici.