Teresa Grandis, mamma di Bebe Vio: “Non è finita, finché non è finita”

"Le probabilità che Bebe morisse erano del 97%, rimaneva un 3% che nostra figlia potesse salvarsi. Ed è stato a quelle che mi sono aggrappata"

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Pubblicato: 26 Luglio 2020 21:52

La prima volta che ho incontrato Teresa era novembre 2012. All’epoca io ero inviata del Cristina Parodi live e avevo proposto di intervistare sua figlia, Bebe Vio, che di anni ne aveva quindici, e di cui mi ero follemente, perdutamente “innamorata” dopo averla vista nella trasmissione Invincibili di Marco Berrì.

Abitavano al quarto piano di una palazzina a Mogliano, in attesa che la loro casa fatta su misura per le esigenze di Beatrice fosse pronta, e non potrò mai dimenticare i sorrisi di questa famiglia pazzesca appena varcata la soglia. Bebe viaggiava su una carrozzina, e si spostava come una scheggia da una stanza all’altra. Dentro di lei c’era già il carattere che tutti abbiamo imparato a conoscere e ad amare, gli occhi cerulei attenti e vispi marchio di fabbrica della famiglia Vio, e poi c’erano loro, Teresa, Ruggero e la piccola Sole; Niccolò era a scuola. Due chiacchiere, un caffè, qualche pasticcino ed ero già completamente persa nei loro racconti, nei loro sorrisi, nella loro forza e nel loro amore, così forte da sembrare quasi palpabile e visibile ad occhio nudo.

È stato un colpo di fulmine perché ognuno di loro aveva della caratteristiche magiche che si incastravano perfettamente le une con le altre: Teresa lo sguardo della cura, quello che vede e in caso provvede, il sorriso dell’amore, la forza di una leonessa, Ruggero l’occhio buono che si commuoveva mentre parlava della prima volta che Beatrice si era messa le lamine per correre, mentre descriveva come il vento le muovesse i capelli; e poi Sole, luminosa come il nome che porta, una risata cristallina e uno sguardo birichino.

Finita l’intervista non volevo andare più via, ci siamo salutati con l’augurio di rivederci presto, sono passati tre anni, in cui ci siamo continuati a sentire, a scrivere, poi sono arrivati i diciotto anni di Bebe, la sua festa in blu, le sue prime protesi con il tacco, ed una festa a tema raccontata dalle telecamere di Notorius, e l’inviata ero sempre io. Si erano trasferiti in questa villetta tutta automatizzata e senza barriere architettoniche, Beatrice era sempre più grande e bella, e la famiglia sempre più compatta e sorridente.

Ho sempre raccontato questa storia attraverso gli occhi di questa ragazzina incredibile, i suoi sogni, i suoi desideri e i risultati raggiunti, gli sforzi fatti, gli obiettivi sempre più ambiziosi, questo alzare l’asticella sempre di un pochino, ma da mamma mi sono sempre chiesta cosa Teresa avesse provato in quei terribili momenti della malattia, dove avesse trovato la forza per reagire, a che cosa si fosse aggrappata per continuare a sperare, e dove avesse trovato la voglia di far nascere un progetto che aiutasse anche gli altri dopo una situazione così drammatica. E così me lo sono fatto raccontare in esclusiva per le lettrici di DiLei.

Ripercorriamo insieme i giorni della malattia, ti ricordi il giorno del ricovero? Ce lo puoi raccontare?
Certo che me lo ricordo, era il 20 novembre 2008, c’era Maria Sole che era stata malata con la febbre per una settimana, noi abitavamo in campagna, ed ero senza aiuti, c’era solo una signora che veniva a fare le pulizie ogni tanto. Sole guarisce, e subito dopo Bebe mi dice di sentirsi poco bene, visto che divideva la camera con sua sorella, ho pensato che si fossero passate l’influenza, e nel giro di ritorno dal recupero dei figli dai vari sport, la lascio per ultima.

Arriviamo a casa e decido di metterla a letto con me, la febbre non si abbassa né con tachipirina, né con altro, la mattina dopo, visto che respirava anche male, chiamo la dottoressa, che non mi sentiva mai, e che non avevo mai chiamato nell’arco di due anni, ed esponendole i sintomi me la indica come broncopolmonite. Le chiedo di venire a visitarla a casa, mi dice che non può, e di portarla in ambulatorio, dove conferma quella diagnosi e di andare subito in ospedale. A quel punto mi ha raggiunto Ruggero e siamo andati subito al pronto soccorso. La nostra fortuna è stata che in accettazione ci ha incrociato un infermiere che faceva la spola tra lì e gli ambulatori e ha immediatamente capito la situazione e ci ha fatto subito entrare. Il vero salvatore di Bebe è lui, gli sono davvero riconoscente. Per fortuna che qualche tempo dopo, una volta finito tutto, ci siamo incontrati di nuovo casualmente in ospedale e ho potuto dirglielo di persona, ma lui lo sapeva già. Avrà sempre un posto speciale nel nostro cuore.

Hai mai avuto pura di perderla?
Da subito. Ho avuto tanta, tantissima paura. I dottori erano stati chiari, le probabilità che morisse erano del 97%, rimaneva un 3% che nostra figlia potesse salvarsi, ed è stato a quelle che mi sono aggrappata.

Quando hai capito che ce l’avrebbe fatta?
Nonostante la paura, io non ho mai perso la speranza, mi dicevo facciamo un passo per volta e a qualcosa arriveremo.  Ci abbiamo messo un mese per avere la certezza che sarebbe sopravvissuta, perché ad ogni piccolo progresso i dottori mettevano le mani avanti sottolineando che non era finita, e che poteva ancora morire.

È vero che la malattia tira fuori il meglio delle persone? Quanto questa situazione ha influito nel rapporto di coppia di Teresa e Ruggero?
Noi siamo stati davvero fortunati, nella vita ci sono capitate spesso situazioni difficili, ma siamo sempre stati molto uniti e coesi, non ci siamo mai lasciati travolgere, ma abbiamo reagito facendo fronte comune. Fondamentali sono stati i fratelli, che all’improvviso si sono ritrovati da soli, senza Bebe che era in ospedale, e senza la presenza fissa e costante dei genitori, e per una famiglia abituata la domenica sera a ritrovarsi tutti insieme a mangiare la pizza e a guardare un film è stato un trauma. Una mattina i tuoi escono con tua sorella per andare in ospedale e tutto crolla, niente è più come prima, il castello è crollato. Senza contare quelle persone che mettevano in giro voci false sulla salute di Beatrice. Una volta una bambina dopo averlo sentito dire in casa, andò a riferire a Sole che sua sorella era morta. Lì la leonessa che è in me ha fatto strage, ho cercato di far capire la situazione a queste persone, e poi ho chiuso ogni rapporto con loro. Il nostro paese però è stato fondamentale, ci ha aiutato tantissimo, tante persone si sono strette a noi, alcune successivamente ci hanno chiesto scusa del loro silenzio, dovuto a pudore e a paura di dare fastidio, al non saper come affrontare l’argomento, ma quelle le riconosci, come quelle che invece vogliono solo sapere per poi parlare.

Parliamo di haters. C’è stato un momento, nel febbraio 2017, in cui sul web Bebe è stata presa di mira dagli haters in una pagina Facebook, e a cui lei ha risposto in modo ironico (dona un neurone a un hater) vincendo a mani basse. Voi come genitori come reagite?
All’inizio rispondevamo, e abbiamo capito che era peggio. Quindi abbiamo imparato a fare finta di nulla. Solo una volta c’è stato un hater più pericoloso e presente che mi ha spaventata, e in quel periodo mi sono appiccicata a Bebe, anche se lei non gradiva, ma sono pur sempre la sua mamma, e posso diventare molto cattiva se qualcuno tocca i miei figli.

Nel 2009 decidete di fondare la Art4sport Onlus, ci spieghi come funziona?
Appena Bebe è uscita dall’ospedale ci siamo resi conto che una delle cose che più riusciva a tirarle su il morale era la speranza e la voglia di tornare a praticare la scherma. Ci siamo accorti che lo sport era la chiave di volta e di svolta per tornare a una normalità, che sembrava ancora così lontana.

Il primo allenatore della nazionale ci comunica: “A chiunque per tirare servono tre dita e un polso”, Beatrice lo guarda e se ne esce con: “Perfetto non ho nulla di tutto ciò, e ora?”. Prima le abbiamo attaccato il fioretto con lo scotch e lei non ne voleva sapere, abbiamo un pochino forzato la mano, perché lei non ne voleva più sapere. Ci sono stati un insieme di aiuti pazzeschi, un’allenatrice di Budrio in Emilia Romagna, organizza un corso di scherma solo per lei, ma all’inizio era restia, perché voleva stare in piedi. Invece poi è andata con Ruggero, si è messa sulla pedana, le è venuto tutto così bene fin da subito che non voleva più scendere dalla sedia, e alla richiesta di scendere Bebe risponde: “Chi vince domina”. E non scende. La cosa più bella è stata al rientro a casa, dopo aver tirato tutto il giorno, prima di addormentarsi Beatrice guarda suo papà e gli dice:”Ecco perché mi piaceva tanto la scherma”. E poi si è addormentata.

Successivamente ho voluto farle incontrare delle persone che potessero esserle d’aiuto e d’esempio, è così che in forma privata ha conosciuto Pistorius e Zanardi, che sono stati eccezionali nel motivarla. Io l’ho guardata e le ho detto: “Se ce l’hanno fatta loro, puoi farcela anche tu“. E contemporaneamente ho sentito il bisogno di creare un qualcosa che aiutasse tutti i ragazzi amputati, non soltanto mia figlia, dopo essere stati all’Inail per chiedere la protesi per la scherma. Alla nostra richiesta, un addetto se ne uscì con questa domanda: “Ma fa risultato?”. Bebe prima della malattia era quinta nel ranking italiano, in quel momento non sapevo nemmeno se sarebbe riuscita a tornare a tirare, importava solo quello. Proprio in quel momento ho capito che era necessario creare un’associazione che sopperisse a questo vuoto, non solo per Beatrice, ma per tutti i ragazzi che si venissero a trovare nelle sue condizioni. E proprio come dice lei, siamo un po’ razzisti, o ti manca un pezzo, o niente. E adesso ne abbiamo trentacinque di ragazzi.

Da allora sono passati 11 anni, c’è qualche storia che ti è rimasta nel cuore più di altre?
Sono tutte storie pazzesche, che danno dipendenza, perché un atleta paralimpico ha già una storia alle spalle, ha fatto passi da gigante per arrivare fino a lì. Sono talmente belle che non ne avresti mai abbastanza, io impazzisco per i bambini. In pratica questi ragazzi, o le loro famiglie, mi contattano, a volte quando ancora sono in ospedale, e noi li andiamo a trovare e proviamo ad aiutarli, perché a noi questa cosa è proprio mancata, perché il medico ti salva, ma poi ti lascia lì, in balia di pensieri ed emozioni, e non è semplice. Dove andare a far le protesi, come muoversi è veramente complicato, per cui questo è diventato il nostro scopo, aiutare chi si trova in difficoltà.

Spieghiamo cosa fa di preciso l’ Art4Sport Onlus
Una volta che i ragazzi entrano in associazione li portiamo avanti fino a che hanno voglia di stare, dopo facciamo una serie di eventi, oltre a dar loro la carrozzina e la protesi, cerchiamo di inserirli in un tessuto sociale, troviamo una palestra dove farli allenare, facciamo provare diversi tipi di sport, alcuni entrano perché hanno bisogno di riconoscersi anche negli altri, che sono uguali a loro. Sono storie di mutuo soccorso, perché io posso aiutarti in questo, ma tu magari puoi darmi delle dritte che io non conosco, e insieme possiamo tracciare un percorso che sia d’aiuto a quelli che verranno dopo, per poter tornare alla normalità il prima possibile. Perché la normalità ritorna, noi davvero ne siamo l’esempio. Io all’inizio pensavo che non avrei più sorriso, Ruggero mi ha sempre detto che invece saremmo tornati a sorridere, piano, piano. Aveva ragione.

Oppure piangerai di gioia come quando Bebe ha vinto la medaglia d’oro…
Io ho le lacrime in saccoccia da dopo le maternità mi è rimasto l’ormone del pianto…Tutte le volte che vedo la premiazione di Rio mi manca l’aria, e l’avrò vista migliaia di volte eh.

Un altro progetto che state portando avanti è Fly2tokyo, ce lo racconti?
È un progetto di comunicazione nato da un’idea dei nostri ragazzi e seguirà il loro percorso sportivo in vista dei Giochi, che per ovvi motivi sono slittati di un anno. L’intento di ‘Fly2tokyo‘ è quello di far conoscere le storie di dieci atleti paralimpici che tentano di ottenere il pass per Tokyo, attraverso un percorso di preparazione, impegno e, ovviamente, le qualificazioni. Dieci storie, anche di emozioni e delusioni, di ragazzi che inseguono un sogno. Abbiamo deciso di prendere una casa a Tokyo, la Art4sport a Tokyo, e di staccare il biglietto non solo per quelli che otterranno il pass per le Olimpiadi, ma anche per tutti i membri del team, che verranno a tifare per i loro compagni. E tutto questo è possibile grazie alle donazioni che ci permettono di aiutare (trovate le informazioni per donare il 5 per mille all’associazione sul sito http://www.art4sport.org).

Teresa, che consiglio puoi dare a chi si possa trovare nella vostra situazione?
Di non mollare mai, un passo alla volta. L’animo umano è pronto ad accettare qualunque cosa, piano, piano. Certo all’inizio è come prendere due schiaffoni, anche cinque, in faccia. È sicuramente durissima, ma bisogna non demoralizzarsi e crederci sempre, noi avevamo il 3% di possibilità di riportare a casa la nostra Bebe. E abbiamo vinto. Non è finita, fino a che non è finita.

Fonte: Instagram
La famiglia Vio – Fonte: Instagram