Con il suo primo libro, La strangera, la torinese Marta Aidala, classe 1996, è entrata nel cuore del pubblico, con una storia d’amore e di formazione in cui protagonista assoluta è la montagna. Lei, che a 17 anni non pensava nemmeno esistessero realmente e che un giorno di fuga da scuola, ha visto il Monviso e ne è rimasta folgorata. Un innamoramento che è stato raccontato nella storia di Beatrice, fumna e strangera (donne e straniera) che decide di lasciare gli studi e la sua città, Torino, per andare a vivere in montagna (“per capire se stessa, trovare un futuro, non scendere più ma restare”), nel rifugio, gestito dal ruvido Barba, prima solo per la stagione estiva, poi fermandosi anche tutto l’inverno. Una storia di natura anche ostile e di silenzio, fuori e dentro di noi, di amicizie impensabili ma profonde, di animi rudi ma veri. Un libro che ti cattura, ti appassiona e a volte ti leva il fiato. Proprio come le montagne.
Il libro è autobiografico, se sì quanto? C’è stato davvero un Barba nella tua vita?
Non lo definirei esattamente un romanzo autobiografico, non sono un’amante della suddivisione tra fiction e auto-fiction. Qualsiasi romanzo ha delle sfumature autobiografiche, ma nel momento in cui si scrive chiunque diventa personaggio/personaggia. Beatrice è Beatrice, Marta è Marta. Io ho avuto i miei Barba, ma sono solo miei. Il Barba di Beatrice è un altro, anche se entrambe siamo accomunate dall’affetto che abbiamo provato per i nostri.
Le montagne, il silenzio, il senso di libertà che ogni tanto può diventare anche soffocamento: sono tutte esperienze vissute sulla tua pelle?
Sì. Anche io ho vissuto in montagna e La strangera ha il mio sguardo e le mie percezioni, quelle di una cittadina innamorata delle terre alte, di quel lassù, con tutto l’incanto e la meraviglia iniziale che la possono influenzare.
Da 8 montagne in poi, negli ultimi anni, c’è stata una riscoperta della montagna nella narrativa. Pensi sia legato ad una voglia di tornare alla riscoperta della natura più selvaggia, ad una vita più solitaria e ancestrale?
La montagna è un luogo altro e sconosciuto, che la maggior parte delle persone non conosce o concepisce come meta di escursioni e ascensioni, “un dove da cui scendere e salire” direbbe Beatrice. Suscita curiosità e fascinazione, anche se troppo spesso viene mistificata. Tra il voler vivere in montagna e il vivere in montagna, c’è di mezzo il mare, la pianura, e una particolare predisposizione d’animo.
C’è una frase di Cognetti che mi è sempre rimasta impressa: “La montagna non è solo nevi e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all’altro, silenzio tempo e misura”. Se potessi dare una tua definizione?
Pazienza, attesa, consapevolezza, forza. Non la forza nelle braccia o nelle gambe, ma quella di essere inclini al rimanere soli con se stessi. È una vita nuda, in cui si impara a eliminare tutto ciò che è superfluo. Ed è abituata alla distanza, c’è chi scende e chi rimane. I legami possono allontanarsi ma rimangono solidi.
C’è un libro che ti ha cambiato la vita, che ti ha fatto pensare: “Voglio fare questo?”
Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Ma non ho mai pensato di voler fare “solo” questo, semmai “anche” questo. Scrivere per me è come il colore dei capelli, fa parte del mio essere. Ma la vita è tanta, troppa e troppo grande per essere o per fare una cosa sola, anche se nel mio caso poi confluisce tutta nella scrittura.
E uno scrittore che è stato un tuo punto di riferimento?
Assieme a Márquez, Sepúlveda, per l’uomo che è stato e per come ha deciso di vivere, oltre che per i suoi romanzi.
Stai scrivendo un nuovo libro? Ci puoi dare qualche anticipazione?
In questo momento non sto ancora scrivendo. Per cominciare a scrivere un nuovo romanzo, così come è successo per La strangera, ho bisogno di rimanere ferma. Ma il tempo “vuoto” dei numerosi viaggi in treno degli ultimi mesi mi ha dato modo di pensare e di costruire.