Si chiamano “cibi ultra-processati” o UPF, acronimo inglese per Ultra processed food, e da qualche tempo sono al centro del dibattito tra gli esperti di alimentazione e salute. Generalmente si intendono quei cibi confezionati e pronti per essere riscaldati o consumati direttamente, prodotti tramite ripetute lavorazioni industriali. Finora, se assunti in quantità eccessive, sono stati associati a effetti dannosi per la salute. Ma cosa c’è di vero? Di che cibi e che quantità si sta parlando? A fare chiarezza sono state alcune considerazioni emerse in occasione dell’evento “Federico Innova: Nutrizione e Diabete 2025′, che si è svolto a Napoli, e un nuovo studio che fa chiarezza su alcuni luoghi comuni.
Indice
Cosa sono i cibi ultra-processati
Nella definizione di cibi ultra-processati rientrano in genere i prodotti industriali che hanno subito una lunga trasformazione nel corso della quale sono addizionati di ingredienti come coloranti, conservanti, aromi e zuccheri aggiunti, allo scopo di migliorarne il gusto e l’aspetto. Ciò che li accomuna è l’alto livello di grassi saturi, zuccheri e sale, mentre tendenzialmente risultano più poveri di nutrienti essenziali come vitamine e fibre. Si tratta, ad esempio, di merendine e snack confezionati, piatti pronti surgelati o freschi, ma anche cibi venduti nei fast food e bevande zuccherate o addizionate in vario modo.
La differenza tra cibi ultraprocessati e “semplicemente” processati
A differenza degli UPF, i cibi semplicemente processati sono pur sempre frutto di una lavorazione ma, come dice il termine stesso, questa risulta a un grado inferiore e dunque intacca meno le proprietà nutritive degli alimenti. Secondo il sistema di classificazione alimentare NOVA, che viene utilizzato spesso in ambito scientifico per classificare gli alimenti tenendo conto del tipo di trasformazione, i cibi semplicemente processati sono quelli ai quali sono aggiunti sale, olio, zucchero (come nel caso di conserve, verdura e legumi in scatola, ecc.) o altri ingredienti come burro o miele. Vi rientrano anche formaggi, pane, pesce in scatola o alcune bevande alcoliche come birra e vino. Ma è proprio sul sistema NOVA che la comunità scientifica non è sempre concorde.
Il sistema di classificazione NOVA
“L’idea che ‘sappiamo tutto’ sui cosiddetti alimenti ultra-processati (UPF) appare oggi eccessiva, a partire dalla definizione stessa proposta dal sistema NOVA e fondata su criteri estremamente semplificati che poco hanno di scientificamente robusto e che non permettono di distinguere in modo coerente alimenti molto diversi tra loro. La classificazione NOVA, inoltre, non tiene conto in modo adeguato della qualità nutrizionale e della densità energetica degli alimenti, che ben sappiamo impattano fortemente sui risultati di salute. Anche per questo è al momento prematuro pensare di inserire il concetto di UPF ad oggi conosciuto all’interno delle policy nutrizionali o delle linee guida per la popolazione”, spiega la Prof.ssa Daniela Martini, del Dipartimento di Scienze per gli Alimenti, la Nutrizione e l’Ambiente dell’Università degli Studi di Milano, intervenuta a Napoli.
Cibi ultra-processati e salute: cosa si sa
Proprio il binomio salute-UPF è al centro di uno studio che la Prof.ssa Martini sta portando avanti in collaborazione con le Università di Firenze e Teramo. Definito con l’acronimo “Promenade”, ha come obiettivo di valutare se all’interno di un modello dietetico mediterraneo, l’inclusione di alimenti classificati come cosiddetti UPF possa avere un impatto sulle condizioni di salute e, in particolare se esistano conseguenze su alcuni marcatori come quelli cardiometabolici e del microbiota. “I risultati preliminari – ha spiegato ancora Martini – suggeriscono che l’inclusione dei cosiddetti UPF in una dieta mediterranea isocalorica (cioè che apporti un quantitativo di calorie pari al dispendio energetico, dunque non inferiore né superiore, NdR) non compromette i principali indicatori cardiometabolici”.
Il peso reale degli UPF
“Ciò significa che la composizione nutrizionale e il contesto dietetico complessivo hanno un peso molto maggiore di quanto la classificazione “UPF” lasci intendere. Tuttavia, è necessario completare lo studio per esplorare meglio in che misura il consumo dei cosiddetti UPF influenzi l’impatto della dieta mediterranea sulla salute umana, fornendo così spunti per una migliore comprensione della relazione tra trasformazione degli alimenti e salute”, aggiunge Martini. Il dubbio è lo stesso termine UPF, scarsamente definito, possa dar luogo a una categorizzazione errata degli alimenti. Si tratta di una riflessione condivisa dall’Unione Italiana Food, associazione di categoria che riunisce e rappresenta 530 eccellenze dell’industria italiana, che producono oltre 900 marchi tra i quali alcuni simboli del Made in Italy alimentare (come caffè, pasta, cioccolato, gelati, ecc.).
La ricerca sui cibi ultra-processati
La ricerca “Promenade” a cui sta lavorando la Prof.ssa Martini parte da un modello dietetico nel suo complesso, per analizzare l’impatto sulla salute, invece che prendere in considerazione le caratteristiche dei singoli alimenti che lo compongono. Rispetto a quanto studiato finora, infatti “Analisi più recenti hanno evidenziato che, quando i cosiddetti UPF vengono suddivisi in sottocategorie, alcuni gruppi (come cereali pronti o alimenti plant-based) possono mostrare effetti neutri o addirittura protettivi”, sottolinea l’esperta. “Se l’effetto negativo fosse imputabile alla sola “ultra-processazione”, premesso che il nome rimane fuorviante, ci si aspetterebbe un impatto uniforme su tutte le categorie, il che non sembra verificarsi. Gli studi di intervento controllati sono ancora limitati e spesso di breve durata”, aggiunge.
Gli studi pregressi
Al momento, dunque, si attendono i risultati di studi in corso, mentre tengono banco quelli di ricerche pregresse. Gli esperti di salute, in genere, concordano nel ricordare l’importanza delle quantità di consumo. I cibi ultra-processati, infatti, contengono, oltre ad alcuni additivi, livelli maggiori di ingredienti come sale, zuccheri e grassi saturi, che anche da soli concorrono con altri fattori di rischio all’insorgenza di patologie e disturbi come l’obesità, la sindrome metabolica, il diabete, la pressione alta e le malattie cardiovascolari. Il rischio, secondo quanto emerso finora, sarebbe dunque maggiore quando l’assunzione di cibi ultraprocessati avviene in quantità elevate e continuative, anche in associazione con un abuso di alcolici, fumo di sigaretta e uno stile di vita poco salutare e sedentario. Come ricorda l’Humanitas sul proprio sito, “Per evitare l’insorgenza di disturbi è importante mantenere un’alimentazione bilanciata, in cui i cibi ultraprocessati sono presenti soltanto in minima parte e al contrario ricca di vegetali, frutta, cereali e legumi. In generale, la dieta consigliata è quella mediterranea, in cui molti piatti prevedono l’utilizzo di questi alimenti. Inoltre, quando si scelgono e consumano cibi ultraprocessati è bene prestare attenzione anche alla loro composizione: il pane in cassetta, per esempio, contiene meno grassi e calorie delle patatine fritte”. Precisazioni che rendono l’idea della necessità di una riflessione più approfondita sull’argomento.
La classificazione NOVA
A dividere alcuni esperti, dunque, è il sistema di classificazione NOVA, che si basa sul grado di lavorazione industriale. Messo a punto da un gruppo di studio brasiliano, parte dalla definizione di lavorazione stessa, ossia “i processi fisici, chimici e biologici che interessano i vari alimenti una volta che sono separati dalla natura e prima che siano consumati o utilizzati nella preparazione di piatti.” La classificazione NOVA prevede la suddivisione degli alimenti in 4 gruppi:
- Gruppo 1 – Cibi non trasformati o minimamente trasformati
Comprende i cibi freschi o sottoposti a processi di conservazione semplici come refrigerazione, congelamento, essiccazione, confezionamento sotto-vuoto e fermentazione non alcolica. Non si prevede, quindi, l’aggiunta di sali, grassi o zuccheri.
- Gruppo 2 – Ingredienti culinari
Include anche “ingredienti” utilizzati per elaborare cibi del primo gruppo, come sale marino, oli vegetali, burro, lardo e miele che sono impiegati per la preparazione di pane, pasta, brodi e zuppe, insalate, ma anche bevande e dessert. Rientrano in questo gruppo anche additivi come antiossidanti, umettanti, addensanti, antibatterici o stabilizzanti.
- Gruppo 3 – Cibi processati (o “semplicemente” processati)
Si tratta di prodotti ottenuti aggiungendo olio, sale o altri condimenti del secondo gruppo agli alimenti del primo, quindi al cibo fresco, “tal quale”. In genere il processo di lavorazione non va oltre la cottura, la fermentazione non alcolica e la conservazione. Anche la lista degli ingredienti è ridotta, solitamente a due o tre. Ad esempio, si trovano in questo gruppo verdure, frutta e legumi in scatola, frutta secca, carne lavorata o affumicata, pesce in scatola, formaggi e pane fresco. Vi rientrano anche le bevande alcoliche come vino e birra, e tutti i cibi del gruppo 3 possono contenere additivi antiossidanti o antimicrobici.
- Gruppo 4 – Cibi e bevande ultraprocessati
Sono proprio gli alimenti che hanno una lista di ingredienti più lunga (da 5 o più), ma soprattutto che prevede anche un quantitativo maggiore di oli (anche idrogenati) e sale, insieme a zucchero, grassi, antiossidanti, stabilizzanti e conservanti. Tra gli elementi più frequenti ci sono proteine idrolizzate, proteine isolate dalla soia, maltodestrina, zucchero invertito e sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio. Gli alimenti UPF possono anche contenere altre sostanze non comunemente utilizzate per cucinare, come additivi che servono per esaltare i sapori o dare al prodotto finale una colorazione più accattivante, o ancora antiagglomeranti, umettanti, ecc.
Gli UPF nel sistema NOVA
Il sistema NOVA, dunque, suddivide in quattro categorie i cibi, considerando gli UPF come correlati a problemi di salute. Ma è davvero così? Come ricorda l’Unione italiana Food, gli studi scientifici che partono dalla classificazione NOVA per dimostrare un nesso tra il consumo dei cosiddetti UPF e un aumento delle malattie non trasmissibili (come obesità, diabete, patologie cardio e cerebrovascolari, tumori, ecc.) sono tutti studi prevalentemente “osservazionali” che esaminano le associazioni tra abitudini alimentari e malattie, “ma non permettono di stabilire nessi di causalità”, chiarisce la prof.ssa Martini. Tra le precisazioni c’è, ad esempio, quella sui diversi tipi di alimenti ultra-processati. È questo uno dei punti su cui si sta focalizzando la ricerca, per individuare specifiche sottocategorie di UPF e il loro reale impatto in termini di salute.
Gli studi sugli UPF: tra dati e approfondimenti
Una posizione analoga è emersa anche in occasione del webinar “I cosiddetti ultraprocessati”, organizzato dal Consiglio Nazionale dei Tecnologi Alimentari, quando la dott.ssa Cinzia Menchise (Unione Italiana Food) ha evidenziato come ad oggi non esistono parametri oggettivi e indipendenti che definiscano il grado di “ultraprocessamento”. La classificazione NOVA, inoltre, non considera la qualità nutrizionale, né la diversità dei processi tecnologici. Gli studi osservazionali, dunque, non permettono di stabilire un vero nesso di causa-effetto e la definizione di UPF rimane troppo ampia e tale da raggruppare al proprio interno alimenti molto diversi tra loro. Ad esempio, questo comprende la semplice pasta confezionata così come i dolci industriali, senza distinguere tra trasformazioni tecnologiche industriali necessarie e processi che invece alterano il valore nutrizionale del cibo.
UPF e consumi: la mappa
L’analisi della dott.ssa Menchise ha anche mostrato differenze territoriali molto marcate a livello internazionale: in Paesi come Regno Unito, Germania e Belgio gli UPF costituiscono il 45–50% dell’apporto calorico giornaliero, mentre in Italia, Francia, Portogallo e Grecia il loro consumo è più contenuto e si ferma al 10–15%. Si tratta, infatti, di realtà nelle quali la dieta mediterranea rimane prevalente e garantisce un’alimentazione equilibrata. Se poi si osservano i paesi in via di sviluppo o emergenti, si nota una rapida crescita nei consumi di cibi ultra-processati, confermando una tendenza alla globalizzazione e modernizzazione delle catene di distribuzione anche in ambito alimentare.
Uscire dalla logica del “buono” o “cattivo”
Alla luce di queste osservazioni, quindi, Menchise invita alla cautela. Intervistata da Microbiologiaitalia.it, l’esperta ha spiegato che “Un alimento è sempre il risultato della combinazione di diversi ingredienti, di varia origine e qualità. Anche la composizione nutrizionale, così come la frequenza e la quantità di consumo, giocano un ruolo determinante. Ridurre quindi il tema a una semplice contrapposizione tra ‘alimenti buoni’ e ‘alimenti cattivi’ è una semplificazione fuorviante e priva di fondamento. Due alimenti apparentemente uguali possono in realtà differire in modo significativo. Anche il gusto, pur essendo un aspetto soggettivo, rappresenta una caratteristica intrinseca che non va trascurata e contribuisce a definire l’identità di ciascun alimento. Inoltre non va dimenticato che è la dieta nel suo complesso che può essere adeguata o meno alle esigenze del singolo. Alla luce di queste considerazioni, appare evidente che la distinzione semplicistica tra ‘alimenti buoni’ e ‘alimenti cattivi’ non sia affatto applicabile”.
Gli scenari futuri
Oltre alle implicazioni in ambito sanitario, infine, occorre tenere presente gli aspetti e le ricadute in termini di sostenibilità ambientale e regolamentazione degli alimenti ultraprocessati, che dovrebbero tenere conto anche del peso economico e produttivo sulla filiera agroalimentare. Scienza, società ed economia, quindi, sono interconnesse e richiedono una riflessione approfondita che non si limi a contrapporre gli alimenti cosiddetti “naturali” a quelli definiti come “ultra-processati”, ma che approfondisca gli studi, riveda le definizioni e immagini uno scenario futuro integrato e bilanciato tra esigenze sanitarie, nutrizionali e commerciali, alla luce di studi più approfonditi. In quest’ottica lo studio della Prof.ssa Martini potrà aggiungersi alle conoscenze finora in possesso degli esperti della comunità scientifica.