La morte del regista Rob Reiner e di sua moglie Michele, massacrati dal figlio Nick, ragazzo problematico con anni di dipendenze alle spalle, è stato uno shock per tutti e mi ha colpita in modo particolare. Non solo perché sono cresciuta con i suoi film, intensi e commoventi. Non basterebbe un articolo per esprimere la mia gratitudine per questo regista sensibile e delicato, capace di commuovere e strappare tante risate, e a detta di tutti gli attori che hanno lavorato con lui, uomo dal cuore grande. Ma anche perché è mostruoso pensare che sia stato ucciso dalla persona che più di ogni altra avrebbe dovuto amarlo e occuparsi di lui, quel figlio cui aveva dato la vita e che amava, nonostante tutto. Tanto da averlo richiamato a vivere con lui, dopo aver provato in ogni modo e con ogni mezzo a salvarlo. E infine perché l’orrore di questa vicenda è forse l’epilogo più drammatico della favola amara di Hollywood. Dove i nepo baby, di cui tanto si sente parlare negli ultimi tempi, crescono senza dubbio privilegiati e con dei lasciapassare che possono farli arrivare in alto attraverso corsie preferenziali. Ma che allo stesso tempo vivono sotto la costante lente d’ingrandimento dei media, pronti a sottolinearne cadute o inadeguatezze, e soprattutto con il costante confronto con la grandezza dei genitori, che spesso non riescono ad eguagliare. E finisce per schiacciarli.

I testimoni che in queste ore raccontano e ripercorrono la serata precedente all’omicidio, quella festa di natale vip organizzata dal comico Conan O’Brien, cui erano presenti Rob, Michele e il figlio, raccontano di come Nick fosse visibilmente alterato e andasse in giro a chiedere a tutti “Ma io sono famoso?“. Perché da sempre questo ragazzo aveva cercato, senza riuscirci, di essere all’altezza del padre, attore, regista produttore di grandissimo talento. C’era stato un momento, una decina di anni fa, nel 2015 in cui scrivendo una sceneggiatura con lui, sulla propria vita, fatta di difficoltà e dipendenza, aprendo il proprio cuore, aveva trovato un canale di comunicazione col pubblico e coi genitori. Quel film, Being Charlie, era stato una boccata d’aria fresca e di speranza, dopo tanti anni di difficoltà e incomprensioni. Ma dopo era stato di nuovo l’oblio e la discesa verso le dipendenze pesanti.

Demi Moore, nello scrivere un commovente ricordo del regista, si dice basita per l’accaduto, visto che i suoi figli sono cresciuti con quelli di Rob e Michele. Proprie le sue Rumer, Scout e LaRue, che in modo diverso, non aggressivo verso gli altri, ma autodistruttivo verso sé stesse, hanno dimostrato anche loro disagio verso la grandezza di una mamma così bella e famosa. Dipendenza da alcol e droga (Rumer) cibo e farmaci (Tallulah), le tre ragazze Willis hanno faticato non poco a trovare un loro equilibrio in mezzo a due genitori- Demi e Bruce Willis – così ingombranti.
Il primogenito di Michael Douglas, Cameron, ha combattuto per anni contro la dipendenza dall’eroina. Idem per il figlio di Tom Hanks, Chet, dipendente dalla cocaina dall’età di 16 anni, che in una intervista ha riassunto perfettamente il nocciolo del problema: “La mia adolescenza è stata molto complicata perché, oltre al fatto che la fama è tossica, io non ero nemmeno famoso. Ero solo il figlio di una persona famosa, non avevo fatto nulla per meritare alcun tipo di rispetto o di fama e le persone mi disprezzano per questo. I miei genitori mi hanno distrutto psicologicamente”. Kelly e Jack Osbourne, figli di Ozzy, hanno raccontato nel serial sulla loro famiglia, gli anni di dipendenze e difficoltà.

Alcuni, come Charlie Sheen, figlio di Martin, Kiefer Sutherland, di Donald, Robert Downey Jr e Drew Barrymore, della dinastia omonima, nonostante le dipendenze e i problemi giovanili , sono comunque riusciti a diventare famosi, a salvarsi e ritagliarsi il loro spazio nello show biz. Ma moltissimi altri non ce la fanno, e vivere nell’ombra immensa dei genitori può diventare insostenibile.
Non oso immaginare quello che dovrà affrontare ora Nick, quando realizzerà l’orrore del suo gesto, né come potrà superare il trauma di Romy, la terzogenita legatissima al padre che ha trovato i corpi dei propri genitori sgozzati dal fratello. Rob Reiner ci ha commossi, fatto ridere, riflettere con i suoi film, spesso (Stand By Me e Misery non deve morire) tratti dal re dell’horror Stephen King. E mai avrebbe potuto pesare di diventare lui stesso protagonista del film d’orrore più brutto del mondo.
Tutti parlano di voler cambiare le cose e aiutare e aggiustare, ma alla fine tutto quello che puoi fare è aggiustare te stesso, diceva Rob Reiner. Nick non è riuscito, nemmeno con l’aiuto dei suoi genitori. Che ne hanno pagato il prezzo più grande.