Con il termine Long-Covid si intende una condizione clinica caratterizzata da segni e sintomi eterogenei che permangono o si sviluppano dopo quattro settimane dall’infezione acuta da SarsS-CoV-2.
Le manifestazioni cliniche sono molto variabili e oggi non esiste un consenso unanime sulle loro caratteristiche, anche se è possibile distinguere manifestazioni generali come astenia, mialgie, artralgie, debolezza generale e quadri legati al benessere di un singolo organo come difficoltà a respirare normalmente, tachicardia, mal di testa inspiegabili e magari anche segni di reflusso gastro-esofageo. Il tutto prende spesso il via da una fortissima astenia, ovvero una stanchezza che pesa moltissimo sulla qualità di vita, che magari si associa anche difficoltà nelle normali attività del cervello. Ci si sente meno pronti a reagire e a seguire un percorso cognitivo più complesso come se tutto fosse da legare ad una sorta di “nebbia” che pare offuscare il normale funzionamento del sistema nervoso.
Indice
Long Covid, cosa rischia il cervello e come riconoscere i problemi
È solo l’ultimo tassello, in ordine di tempo, del mosaico che disegna gli effetti dell’infezione da virus Sars-CoV-2 sul sistema nervoso ed in particolare sul cervello. Perché tra gli effetti del Covid, in alcuni casi, possono esserci conseguenze che vanno ad interessare anche quest’area. A segnalarlo è una ricerca coordinata dall’Università degli Studi di Milano che mostrano come gli effetti del Covidsi ripercuotano sulla memoria anche a distanza di un anno.
Lo studio ha valutato le conseguenze cognitive come memoria, attenzione, linguaggio, il funzionamento del cervello e, in un caso, anche la deposizione di molecole tossiche nel cervello, in un gruppo selezionato di pazienti che a distanza di un anno dalla malattia lamentavano ancora disturbi e stanchezza mentale. Come detto, è solo l’ultimo di una lunga serie. Ed altre indagini seguiranno per aiutarci a comprendere uno dei tanti aspetti di Covid ancora da chiarire per bene.
Così lavora il cervello dopo Covid
La ricerca, coordinata dal neurologo Alberto Priori, docente della Statale di Milano e frutto di una collaborazione tra il Centro “Aldo Ravelli” dell’Università degli Studi di Milano, l’ASST Santi Paolo e Carlo e l’IRCCS Auxologico, è stata condotta da un team di neurologi, psicologi e medici nucleari e appena pubblicata su Journal of Neurology. Lo studio ha selezionato sette pazienti che presentavano persistenti disturbi cognitivi rilevati da specifici test neuropsicologici un anno dopo la malattia, peraltro mai lamentati prima.
Questo gruppo di pazienti è stato esaminato poi con la metodica di tomografia ad emissione di positroni (PET) usando come marcatore il glucosio legato ad un isotopo radioattivo. Tutti i pazienti presentavano test neurologici alterati: in particolare, quattro pazienti presentavano disturbi cognitivi oggettivati da test neuropsicologici ma PET normali mentre tre pazienti avevano disturbi cognitivi con test neuropsicologici e PET alterati. In tre dei quattro pazienti con persistenti alterazioni cognitive, la PET ha mostrato un ridotto funzionamento delle aree temporali (sede della funzione della memoria), del tronco encefalico (sede di alcuni circuiti che regolano l’attenzione e l’equilibrio) e nelle aree prefrontali (che regolano l’energia mentale, la motivazione e, in parte, il comportamento). In uno di questi pazienti che presentava un disturbo cognitivo più grave è stata anche eseguita anche una PET con una sostanza che permette di visualizzare la deposizione di amiloide nel cervello.
“L’amiloide è una proteina che quando si accumula nei neuroni ne determina l’invecchiamento precoce e la degenerazione e che è implicata nella malattia di Alzheimer. Ebbene nel paziente esaminato la PET ha rilevato un abnorme accumulo di amiloide nel cervello e particolarmente nei lobi frontali e nella corteccia cingolata (legate a funzioni cognitive complesse ed alle emozioni) – sottolinea Luca Tagliabue, direttore della divisione di Medicina Nucleare e Radiodiagnostica dell’ASST-Santi Paolo e Carlo”.
Così il cervello funziona male
Le conclusioni che si possono trarre sono che in poco meno della metà dei pazienti che lamentano disturbi di memoria e concentrazione a distanza di un anno dal Covid possono esserci alterazioni di funzionamento delle aree cerebrali temporali, frontali e del tronco dell’encefalo. L’osservazione dell’aumento di amiloide in un paziente, riportata per la prima volta in questo studio, potrebbe essere in relazione all’infezione oppure all’innesco da parte dell’infezione della cascata neurodegenerativa.
Questo dato impone che dovrà essere valutato da futuri studi se la pregressa infezione da Sars-Cov-2 ed il Covd potranno determinare in futuro un aumentato rischio di malattie neurodegenerative. “Oltre la metà dei pazienti esaminati, pur lamentando ancora disturbi cognitivi (memoria, attenzione e “nebbia” mentale), avevano una PET normale. Questo dato suggerisce che i disturbi cognitivi che persistono ad un anno dalla malattia in più della metà dei casi non hanno un riscontro funzionale sul cervello ma possono derivare da modificazioni di tipo esclusivamente psicologico analoghe al disturbo postraumatico da stress – segnala Roberta Ferrucci, docente di psicobiologia dell’Università Statale Milano”.
“Questo studio offre un ventaglio di ipotesi interpretative del danno post-Covid e pone le basi per una valutazione diversificata del paziente nel lungo termine. I processi neurodegenerativi potrebbero anche innestarsi post-infezione in casi selezionati secondo diverse vie patogenetiche e questa, ovviamente, è la domanda principale che ci poniamo: possiamo attenderci nel futuro patologie neurodegenerative? ” ricorda Vincenzo Silani, già professore ordinario di neurologia dell’Università Statale Milano e direttore del Dipartimento di Neuroscienze di Auxologico IRCCS”.
Cos’è il Neuro-Covid
Questo studio indica che a distanza di un anno dalla malattia ci possono essere in un certo numero di pazienti ancora alterazioni cognitive che in parte possono essere dovute ad alterazioni psichiche senza un correlato metabolico sul cervello ma, in poco meno della metà dei casi, possono essere correlate ad alterazioni del metabolismo cerebrale e, occasionalmente anche a deposizione di molecole tossiche per i neuroni.
Ma attenzione: si sa da tempo che l’infezione può colpire sia il sistema nervoso centrale – con cefalea, vertigini, disturbi dello stato di coscienza (confusione, delirium, fino al coma), encefaliti, manifestazioni epilettiche, disturbi motori e sensitivi, maggiore incidenza di ictus con maggiore severità – sia il sistema nervoso periferico, con perdita o distorsione del senso dell’olfatto, del gusto, neuralgie e sindrome di Guillan-Barrè. Anche nella fase successiva alla malattia sono emersi vari problemi quali astenia protratta, disturbi di concentrazione, disturbi della memoria e comportamentali, che potrebbero essere collegati a piccoli danni vascolari o infiammatori del sistema nervoso, con ripercussioni a lungo termine.
Così il virus “attacca” il sistema nervoso
La malattia può interessare il cervello in vari modi. Si sa che si può verificare l’infezione diretta delle cellule neurali da parte del coronavirus così come il cervello può essere interessato dalla grave infiammazione generalizzata che lo “inonda” di agenti pro-infiammatori danneggiando così le cellule nervose. “Il virus Sars-CoV-2 utilizza l’ACE2 come principale recettore di attacco della “proteina spike” per l’ingresso cellulare – ha spiegato qualche tempo fa Paolo Calabresi, Ordinario di Neurologia e Direttore della Neurologia del Policlinico Gemelli di Roma.
La proteina ACE2 è stata osservata nel sistema vascolare, ma in minor misura nel rivestimento dei vasi cerebrali. Tuttavia, il sequenziamento dell’RNA ne ha dimostrato la presenza, anche se modesta nel cervello umano”. In uno studio pubblicato recentemente e relativo a pazienti sintomatici ricoverati nella prima ondata di Covid-19, 213 pazienti sono risultati positivi per Sars-Cov-2mentre 218 pazienti sono risultati negativi e sono stati utilizzati come gruppo di controllo.
“Per quanto riguarda le manifestazioni del sistema nervoso centrale, è stato osservato nei pazienti positivi una maggiore frequenza di cefalea, iposmia ed encefalopatia sempre correlata a condizioni sistemiche (febbre o ipossia) – è stato il commento dell’esperto. Inoltre, il coinvolgimento muscolare era più frequente nell’infezione da Sars ‐CoV-2. Le manifestazioni neurologiche di Covid-19 costituiscono quindi una delle principali sfide per la salute pubblica non solo per gli effetti acuti sul cervello, ma anche per i danni a lungo termine alla salute del cervello che potrebbe derivarne. Queste manifestazioni ritardate potrebbero essere presenti anche in pazienti che non hanno mostrato sintomi neurologici nella fase acuta”.
La donna rischia di più problemi dopo Covid
Le osservazioni proponevano un maggior rischio di sequele di Covid per il genere femminile. Qualche tempo fa, a confermare questa osservazione specie per le donne che hanno avuto l’infezione in forma grave con necessità di ricovero. A segnalarlo è stata qualche tempo fa una rivista di altissimo livello scientifico – JAMA – in uno studio realizzato a cura dei numerosi esperti che fanno parte di un gruppo di lavoro chiamato “Global Burden of Disease Long COVID Collaborators”.
Nello studio pubblicato su JAMA si scrive che circa il 6% delle persone con infezioni sintomatiche aveva un Long Covid nel 2020 e nel 2021. Il rischio di Long-Covid apparirebbe maggiore in chi ha avuto forme più serie di infezione, con ricovero ospedaliero. Ma si conferma come in quasi due casi su tre ad affrontare nel tempo le sequele dell’infezione siano soprattutto le donne: addirittura in più di tre persone su cento permangono fastidi alla respirazione, e per il 3,2% sensazione di stanchezza indicibile e dolore fisico. Problemi cognitivi vengono manifestati in poco più di due persone su cento.
Fonti bibliografiche
Le principali manifestazioni neurologiche dell’infezione da COVID-19, Medico e paziente
Società italiana di neurologia
Long-Covid, il polmone soffre nel tempo
Per contribuire alle conoscenza del Long-Covid, su Journal of Pathology viene pubblicata una ricerca che ha visto collaborare un gruppo di ricercatori dell’Università di Trieste, del King’s College of London e dell’International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology (ICGEB) di Trieste. Lo studio riesce ad aprire un’importante finestra scientifica su ciò che avviene in termini di danno a carico dei polmoni dopo l’infezione da virus Sars-CoV-2. Lo studio, coordinato da Mauro Giacca, docente di biologia molecolare dell’Università di Trieste, direttore della Scuola di Medicina Cardiovascolare al King’s College di Londra e Group Leader del laboratorio di Medicina molecolare in ICGEB, ha analizzato il tessuto polmonare di una particolare categoria di pazienti, ossia quelli apparentemente negativizzati dal virus, ma le cui condizioni cliniche si sono progressivamente aggravate fino a condurli alla morte con sintomi del tutto sovrapponibili a quelli di un’infezione acuta da SARS-CoV-2.
La coorte dei pazienti analizzati, nonostante la ripetuta negatività virale fino a 300 giorni consecutivi, ha rivelato evidenza di polmonite interstiziale focale o diffusa, accompagnata da estesa sostituzione fibrotica nella metà dei casi. Assolutamente inattesi sono alcuni aspetti significativi dal punto di vista patologico: nonostante l’apparente remissione virologica, la patologia polmonare si è rivelata molto simile a quella osservata negli individui con infezione acuta, con frequenti anomalie citologiche, sincizi e la presenza di caratteristiche dismorfiche nella cartilagine bronchiale.
Il secondo aspetto, forse ancora più inquietante, è legato all’assenza di tracce virali nell’epitelio respiratorio (coerente con la negatività del test molecolare), mentre sono state individuate nella cartilagine bronchiale e nell’epitelio ghiandolare parabronchiale la proteina Spike e quella del Nucleocapside virale, indispensabili rispettivamente all’infezione e alla replicazione del virus. Il distretto cartilagineo appare come un “santuario” che rende il virus non identificabile con alcuna delle metodiche di cui si dispone al momento.
Insomma: la sensazione che emerge dall’indagine è che l’infezione da SARS-CoV-2 possa persistere significativamente più a lungo di quanto suggerito dai risultati negativi dei Test PCR, con segni evidenti d’infezione in specifici tipi di cellule nel polmone. Quale sia il ruolo effettivo di questa latente infezione a lungo termine nel quadro clinico della cosiddetta “sindrome da Long-Covid” è ancora da capire, ma comunque è un ulteriore passo avanti nelle conoscenze.
Astenia, problemi al cuore e al sistema nervoso
Il long-Covid impatta tanto sul corpo quanto sulla psiche e per questo, complici anche gli stress del momento storico che stiamo vivendo, rischia di diventare un vero e proprio ostacolo sulla strada del benessere per tante persone. A tutte le età e, in alcuni casi, anche senza una diretta correlazione con la gravità del quadro di Covid-19, con comparsa di disturbi a distanza anche in chi ha avuto sintomi lievi legati alla replicazione del virus. Ma quando si parla di long-Covid?
In termini generali si intende una condizione clinica caratterizzata da segni e sintomi eterogenei che permangono o si sviluppano dopo quattro settimane dall’infezione acuta da SARS-CoV-2. Le manifestazioni cliniche sono molto variabili e oggi non esiste un consenso unanime sulle loro caratteristiche, anche se è possibile distinguere manifestazioni generali come astenia, mialgie, artralgie, debolezza generale e quadri legati al benessere di un singolo organo come difficoltà a respirare normalmente, tachicardia, mal di testa inspiegabili e magari anche segni di reflusso gastro-esofageo.
Rifacendosi sempre all’”istantanea” scattata dagli esperti di Fadoi (Federazione degli internisti ospedalieri) , ci si accorge che a fare da “apripista” ai disturbi è quasi sempre una stanchezza indicibile, che limita le possibilità di fare ciò che si faceva prima dell’infezione. Questo problema, sia pure se con diverse gradualità, sarebbe presente addirittura in quasi quattro persone su cinque. Anche una sorta di difficoltà nelle comuni attività cerebrali, in termini di prontezza nelle reazioni e capacità di seguire a lungo un percorso, compare in alcune persone, sotto forma di una specie di “nebbia” che pare offuscare il normale funzionamento del sistema nervoso.
Ancora: permangono per molti, più o meno sei soggetti su dieci, difficoltà a respirare normalmente, che si manifestano con affanno e facile affaticabilità. Solo nei casi più gravi anche uno sforzo fisico minimo mette nelle condizioni di respirare più velocemente per compensare le carenze di ossigeno. Capitolo cuore: sono tante le osservazioni che dicono come il cuore e i vasi di chi ha avuto Covid-19 presentino caratteristiche di rischio maggiore.
Un’analisi svedese apparsa su British Medical Journal in questo ambito mostra che nel primo mese dopo il quadro si osserva un aumento di circa cinque volte del rischio di trombosi venosa profonda ed un incremento di oltre trenta volte del rischio di embolia polmonare e quasi raddoppia l’incidenza di emorragie. Poi, progressivamente, il rischio scende. Ma permane anche a distanza di mesi, seppur meno significativo.
Perché nasce il long-Covid
Appare importante la presenza di uno stato iper-infiammatorio persistente o una risposta anticorpale inadeguata, che potrebbero contribuire a generare la situazione. Tra le cose che non si sanno, insomma, manca la certezza che la sindrome post-Covid dipenda direttamente dal virus o sia piuttosto provocata soprattutto dallo stress e dal trauma connessi all’infezione. tuttavia sappiamo che il virus ha fra i suoi bersagli l’endotelio dei vasi sanguigni.
Ancora: si pensa che, tra gli altri fattori, si possa verificare una sorta di reazione autoimmune, con il virus che in pratica induce un “errore” da parte del sistema difensivo dell’organismo portandolo al punto di produrre autoanticorpi, che non riconoscono come “propri” del corpo tessuti che quindi possono essere attaccati, dando il via ai sintomi. Di certo si sa che il long-Covid non interessa solamente le persone anziane, ma può colpire anche giovani e bambini, a prescindere dalla gravità dei sintomi della prima infezione.
Basti pensare in questo senso ad uno studio di qualche tempo fa di un gruppo di ricerca del Dipartimento della Salute della Donna e del Bambino e di Sanità Pubblica della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma: in circa 130 bambini con diagnosi di Covid-19, poco meno di uno su tre presentava un disturbo a distanza di quattro mesi dall’infezione e uno su cinque aveva tre o più sintomi correlati al quadro, tra cui dolori alle articolazioni, disturbi del sonno e mal di testa.
Quanto può pesare il long-Covid
Le conseguenze a distanza di Covid-19 possono impattare tanto sul corpo quanto sulla psiche. Per long-Covid si intende una condizione clinica caratterizzata da segni e sintomi eterogenei che permangono o si sviluppano dopo quattro settimane dall’infezione acuta da SARS-CoV-2.
Le manifestazioni cliniche sono molto variabili e oggi non esiste un consenso unanime sulle loro caratteristiche, anche se è possibile distinguere manifestazioni generali come astenia, mialgie, artralgie, debolezza generale e quadri legati al benessere di un singolo organo come difficoltà a respirare normalmente, tachicardia, mal di testa inspiegabili e magari anche segni di reflusso gastro-esofageo. E non bisogna dimenticare che a volte a fare da “apripista” ai disturbi è una stanchezza indicibile, che limita le possibilità di fare ciò che si faceva prima dell’infezione.
Ancora: permangono per molti, più o meno sei soggetti su dieci, difficoltà a respirare normalmente, che si manifestano con affanno e facile affaticabilità. Solo nei casi più gravi anche uno sforzo fisico minimo mette nelle condizioni di respirare più velocemente per compensare le carenze di ossigeno.