Morbo di Alzheimer: sintomi, cause e cura

L'Alzheimer è caratterizzato dal declino graduale delle funzioni cognitive cerebrali: ecco quello che c'è da sapere

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Carlotta Dell'Anna Misurale

Laureanda in Medicina e Chirurgia

Studentessa di Medicina appassionata di neurologia. Vanta esperienze in ricerca, con focus sui misteri del cervello e l'avanzamento scientifico.

Il morbo di Alzheimer è la più comune forma di demenza, ossia di declino delle facoltà mentali: secondo le stime ufficiali, rappresenta il 50-80% dei casi di demenza e solo in Italia colpisce 600mila persone. Non è una malattia improvvisa, bensì progressiva: provoca, infatti, un lento declino delle capacità di memoria, di ragionamento e di pensiero.

Le persone interessate perdono gradualmente la propria autosufficienza fino a diventare completamente dipendenti dagli altri. Non è un caso che questo morbo sia considerato la principale causa di disabilità nell’invecchiamento.

Morbo di Alzheimer: che cos’è

L’Alzheimer consiste in una progressiva perdita delle capacità e delle funzioni del cervello: quelle mnesiche, cognitive e funzionali. Nonostante esistano forme di malattia a esordio precoce (anche a 45 anni), la stragrande maggioranza delle persone presenta i primi sintomi dopo i 65 anni. L’incidenza della patologia aumenta con l’avanzare dell’età. Le donne si ammalano un po’ meno degli uomini delle forme precoci, mentre sono lievemente più colpite per le forme a esordio più tardivo.

Il fatto che il morbo sia più comune dopo una certa età non significa che le persone anziane siano tutte destinate ad ammalarsi. Con l’invecchiamento, è normale essere soggetti a qualche problema di memoria e a un rallentamento nel pensiero, ma l’Alzheimer è ben altra cosa: una patologia vera e propria che riguarda solo una fetta della popolazione.

Morbo di Alzheimer: quali sono le cause

A oggi, le cause del morbo di Alzheimer non sono del tutto note. Tuttavia, gli esperti hanno individuato alcuni dei meccanismi e dei processi che portano alla nascita della patologia. Innanzitutto, si è osservato che il cervello colpito da demenza va incontro ad “atrofia”: si riduce cioè di volume (del 20% circa) a causa della morte precoce di un numero elevatissimo di neuroni (cellule nervose) in zone cerebrali “critiche”, per esempio:

  • l’ippocampo e il lobo temporale, che controllano i circuiti della memoria;
  • il lobo frontale soprattutto di sinistra, che controlla il linguaggio;
  • il lobo parietale, preposto all’uso degli oggetti.

In secondo luogo, gli studi hanno dimostrato che in presenza del morbo di Alzheimer, nel cervello si accumulano eccessivi depositi di materiale “tossico”. Nel dettaglio, negli spazi fra le cellule nervose si accumulano frammenti di una proteina – detta beta amiloide – che vanno a formare delle placche. All’interno delle cellule, invece, si accumulano fibre contorte di un’altra proteina chiamata tau. Inoltre, si formano per degenerazione delle neurofibrille – i costituenti dei neuroni- dei grovigli che impediscono il corretto “dialogo” tra una cellula nervosa e l’altra.

In aggiunta, in caso di Alzheimer, si riducono progressivamente i contatti fra le cellule nervose (sinapsi), che regolano il comportamento della persona e permettono che nel cervello si creino e si depositino ricordi, emozioni, sensazioni, conoscenze. Questo succede a causa sia dei motivi appena elencati sia della riduzione dei neuromediatori, in particolare l’acetilcolina, che sono sostanze chimiche che sono alla base della trasmissione nervosa.

Infine, sono eccessivamente presenti sostanze – quali il glutammato – che provocano una iperattività delle cellule nervose, portandole precocemente alla degenerazione.

Fattori che predispongono al rischio di Alzheimer

I motivi all’origine dei meccanismi che portano allo sviluppo dell’Alzheimer non sono ancora conosciuti. Sembra che di base ci sia una predisposizione genetica, presente fin dalla nascita, ma non sono note le cause che la trasformano in manifestazione clinica vera e propria. Si è visto poi che alcuni fattori presentano una certa correlazione con la malattia. Ecco i principali:

  • traumi cranici violenti (con stato di coma o comunque di prolungata amnesia) nel corso della vita;
  • familiarità per demenze (tra i genitori, nonni, zii eccetera), associata alla presenza di particolari alterazioni genetiche;
  • disturbi di circolazione e malattie cardiache: sembra che la salute del cervello sia strettamente correlata alla salute del cuore e dei vasi sanguigni;
  • bassa scolarità (nel senso di uno scarso “uso” delle proprie funzioni cerebrali).

Malattia di Alzheimer: quali sono i  sintomi

L’Alzheimer è una malattia subdola e insidiosa, che all’inizio non dà particolari segni della sua presenza. Difficilmente nelle prime fasi pazienti e famigliari si accorgono che c’è qualcosa che non va. I primi sintomi sono quasi sempre una leggera perdita della memoria e una progressiva incapacità di imparare nuovi concetti o nuove tecniche. Spesso è presente anche una difficoltà a esprimersi e a comprendere gli altri.

Con il tempo, il soggetto colpito può:

  • andare incontro a una diminuzione delle capacità percettive visuo-spaziali, facendo confusione con tempi e luoghi;
  • cambiare umore, carattere e personalità;
  • avere problemi nell’emettere giudizi;
  • non riuscire bene a fare calcoli matematici e ragionamenti che richiedono una certa logica;
  • sono spesso presenti anche manifestazioni psichiatriche, come ansia, depressione, irritabilità, ritiro sociale, apatia.

Si può avere, inoltre, un’inversione del ciclo sonno/veglia e una tendenza al “vagabondaggio” (cioè a uscire di casa senza un fine preciso e a vagare tutto il giorno senza alcun motivo) e a muoversi in continuazione nel proprio ambiente come una tigre in gabbia.

Le fasi avanzate del morbo

Più la malattia avanza e più le difficoltà aumentano: compiere le normali attività diventa sempre più problematico, anche eseguire gesti banali come vestirsi o lavarsi le mani può essere molto difficile. La perdita della memoria diventa via via più accentuata: la persona non ricorda nomi, non riconosce le persone care e i luoghi nei quali vive. Inoltre fa fatica a parlare, a scrivere e a muoversi nello spazio.

Con il progredire della patologia, il paziente finisce con il diventare completamente dipendente dagli altri: ha difficoltà nel camminare, rigidità degli arti, incontinenza urinaria e fecale; riesce solo a pronunciare parole dette da altri oppure a ripetere suoni o gemiti, talvolta è addirittura muto; può avere comportamenti “infantili”, come portare ogni cosa alla bocca.

La diagnosi dell’Alzheimer

Per diagnosticare l’Alzheimer è necessario eseguire alcuni esami. I più importanti sono quelli che permettono una valutazione neurologica e che includono “test neuropsicologici” per le funzioni cerebrali più precocemente colpite (per esempio memoria, linguaggio, scrittura, calcolo, eccetera).

È indispensabile anche eseguire un esame d’immagine del cervello come la TAC o, meglio, la risonanza magnetica cerebrale. Tramite la PET, inoltre, si può indagare se le aree cerebrali a rischio “lavorano” (cioè ricevono sangue e consumano ossigeno e glucosio) in modo normale oppure no. Lo specialista può avvalersi anche di indagini più dettagliate e specifiche.

Alzheimer: le cure

Purtroppo, al momento, la malattia di Alzheimer è incurabile. Infatti, non esistono ancora cure in grado di contrastarla e di fermarne la progressione. Tuttavia, esistono dei farmaci che riescono a rallentare il peggioramento dei sintomi e a migliorare la qualità di vita dei pazienti e dei loro famigliari. Per esempio, si utilizzano i farmaci che funzionano aumentando i neurotrasmettitori nel cervello.

Nelle forme iniziali e medie, è molto utile anche la riabilitazione cognitiva e fisica, che può rallentare la progressione della malattia, migliorando anch’essa la vita del paziente e della sua famiglia. Il programma riabilitativo viene stabilito da un’equipe di specialisti diversi e può comprendere esercizi visivi ed acustici di complessità sempre crescente.

Possono essere molto benefici anche gli interventi comportamentali ed educazionali; la partecipazione ad attività in grado di migliorare l’umore; la terapia di orientamento alla realtà (ROT) finalizzata a orientare il paziente rispetto alla propria vita personale, all’ambiente e allo spazio; il counseling; la pet therapy.

Un’altra frontiera innovativa nel campo delle terapie per l’Alzehimer sono le terapie biologiche, che rappresentano un’avanguardia nella ricerca e nel trattamento della malattia, puntando a rallentare la progressione della malattia attraverso l’intervento sui processi biologici sottostanti.

Questi trattamenti si concentrano principalmente sul ridurre l’accumulo di proteine patologiche nel cervello, come il beta-amiloide e la tau, che sono tra i principali marker della malattia. Ad esempio, gli anticorpi monoclonali, come aducanumab, approvato dalla FDA negli Stati Uniti nel 2021, mirano a rimuovere le placche amiloidi dal cervello dei pazienti con Alzheimer.

Sebbene il dibattito sulla sua efficacia e sul rapporto costi-benefici sia ancora aperto, rappresenta un passo significativo verso terapie mirate. Altre ricerche si stanno concentrando su terapie che regolano la tau, un’altra proteina che si accumula in modo anomalo nei pazienti con Alzheimer. Le terapie biologiche offrono quindi una nuova speranza, ma è importante sottolineare che la loro efficacia può variare significativamente da paziente a paziente, e sono ancora oggetto di ampie ricerche per determinare il loro impatto a lungo termine sulla malattia.

Come prevenire il rischio di Alzheimer

Per diminuire il rischio di ammalarsi di Alzheimer, è bene seguire alcuni accorgimenti:

  • avere una vita sociale attiva;
  • muoversi il più possibile;
  • non fumare;
  • cercare di evitare di stressarsi troppo;
  • seguire una dieta sana;
  • “esercitare” la mente con attività come lettura, parole crociate, studio;
  • sottoporsi ai controlli consigliati dal medico;
  • curare eventuali malattie, come depressione, problematiche cardiache, diabete.

Dal punto di vista dei fattori di protezione invece, un argomento molto interessante per la comunità scientifica è quello di riserva cognitiva.

La riserva cognitiva si definisce come la capacità del cervello di compensare il danno cerebrale attraverso l’utilizzo di percorsi neuronali alternativi o strategie cognitive preesistenti. Questa capacità riflette la flessibilità e l’efficienza dei sistemi cerebrali che permettono ad un individuo di mantenere una funzionalità cognitiva ottimale nonostante l’esposizione a fattori di rischio o lesioni cerebrali. È influenzata da vari fattori, tra cui l’istruzione, le esperienze di vita, l’occupazione e le attività di arricchimento cognitivo.

La riserva cognitiva è quindi un costrutto teorico che spiega le differenze individuali nella tolleranza ai cambiamenti cerebrali, legati all’età o a patologie, e rappresenta un campo di grande interesse per lo sviluppo di strategie preventive e terapeutiche nelle malattie neurodegenerative.

In altre parole, la riserva cognitiva rappresenta la resilienza mentale di un individuo nel fronteggiare e recuperare un danno cerebrale, come un ictus o la neurodegenerazione. Questo principio ha suscitato l’interesse della comunità scientifica, evidenziando che la riserva cognitiva deriva dalle esperienze vissute nel corso della vita. Studi hanno mostrato che persone con un elevato grado di istruzione o che hanno avuto accesso a contesti stimolanti possiedono una maggiore capacità di adattamento rispetto a chi ha vissuto in condizioni meno favorevoli.

Questa facoltà di adattarsi efficacemente a situazioni avverse sta influenzando l’approccio alla prevenzione e al trattamento delle patologie neurodegenerative, portando all’elaborazione di programmi di potenziamento cognitivo in diversi centri clinici, con l’obiettivo di attenuare gli effetti dell’età sulla memoria e ritardare l’evoluzione delle fasi avanzate di demenza.

Fonti bibliografiche: