Epilessia, come riconoscerla e curarla se è resistente ai farmaci

Se le crisi persistono pur avendo provato almeno due farmaci specifici, si parla di epilessia farmacoresistente: come intervenire

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Pubblicato: 28 Dicembre 2023 08:30

Circa una persona su tre, tra quanti fanno i conti con l’epilessia, sia trova ad affrontare una forma di patologia resistente ai farmaci. Si parla di farmaco-resistenza quando il quadro si manifesta con la persistenza di crisi quando almeno due farmaci anti-crisi appropriati e ben tollerati sono stati sperimentati.

La scienza e la ricerca stanno trovando contromisure specifiche per queste situazioni, da adottare caso per caso, in base alle indicazioni dello specialista curante e alle condizioni del malato. Si va  dall’intervento chirurgico che nella maggior parte dei casi è risolutivo sino alla sperimentazione di farmaci innovativi e alle terapie come tecniche di neuromodulazione e dieta chetogenica.

Quando si parla di epilessia farmaco-resistente

“Per farmacoresistente – spiega Laura Tassi, Presidente LICE (Elga Italiana Contro l’Epilessia e neurologo presso la Chirurgia dell’Epilessia e del Parkinson del Niguarda di Milano – intendiamo una persona con epilessia che continua ad avere crisi pur avendo provato almeno due farmaci specifici per il suo tipo di epilessia, ben tollerati, somministrati alla massima dose possibile e per un adeguato periodo di tempo, in monoterapia o in associazione con altri farmaci.

Tale condizione non è definitiva né irreversibile. In alcuni casi, infatti, può essere avviato un iter per valutare la fattibilità e l’indicazione ad un intervento chirurgico o, laddove questo non fosse possibile, esistono terapie alternative che includono la Stimolazione Vagale, la Deep Brain Stimulation o la dieta chetogenica”.

Esiste una forma di epilessia falsamente resistente ai farmaci?

A volte si può riscontrare una farmacoresistenza falsa o pseudo-farmacoresistenza. “Casi come questi – precisa Oriano Mecarelli, Past President della LICE – sono dovuti ad un’errata diagnosi di epilessia, a una scelta inadeguata del farmaco e/o delle sue dosi, a una diagnosi non corretta dal punto di vista sindromico, o ad una scarsa regolarità nell’assunzione della terapia da parte del soggetto. Se non chiarita, questa condizione può protrarsi inopportunamente nel tempo e rendere difficoltosa la gestione della malattia, con accentuazione dei suoi risvolti psicosociali negativi.

È pertanto consigliabile che le persone con epilessia, il cui trattamento risulti difficoltoso, vengano valutate presso centri specializzati. Oggi abbiamo la possibilità di ricorrere anche a nuove e innovative terapie con farmaci che possono “riaccendere” la speranza, o comunque ridurre la frequenza e l’entità delle crisi”.

Cosa prevede l’intervento chirurgico

Si stima che almeno il 15-20% dei soggetti farmacoresistenti possa trovare beneficio grazie ad un intervento neurochirurgico specificamente mirato e circa il 70% dei pazienti operati ottiene un ottimo risultato in termini di risoluzione delle crisi e, quindi, di qualità di vita La terapia chirurgica delle epilessie consiste nella rimozione, quando è possibile senza indurre deficit neurologici, della regione cerebrale responsabile delle crisi, definita zona Epilettogena.

I dati ottenuti dalle indagini neurofisiologiche di routine (EEG e Video-EEG), dallo studio del tipo di crisi (caratteristiche cliniche) e dalle Neuroimmagini (RM), consentono di identificare con precisione la zona Epilettogena. Tra i soggetti candidati all’intervento neurochirurgico, meno del 40% necessita di indagini più sofisticate come l’impianto di elettrodi all’interno del cervello per registrare le crisi, procedura denominata Stereo‑EEG.

Come si scelgono i soggetti da operare

I grandi progressi medici e strumentali consentono ormai di identificare la causa delle crisi in quasi il 90% dei soggetti candidati ad un intervento; in oltre il 50% dei casi si tratta di una malformazione della corteccia. Le procedure chirurgiche presentano rischi molto bassi (intorno all’1%).

Circa il 70% dei pazienti operati ottiene un ottimo risultato con l’intervento: l’assenza di crisi consente di valutare in un secondo tempo di ridurre e sospendere la terapia farmacologica. “La libertà dalle crisi – interviene Carlo Andrea Galimberti, Vice Presidente LICE e Responsabile del Centro per lo Studio e la Cura dell’Epilessia, IRCCS Fondazione Mondino, Pavia – è probabilmente il fattore più influente sulla Qualità della Vita di una persona con epilessia: essa  consente in molti casi di recuperare l’autonomia personale, l’idoneità alla guida di veicoli a motore a un anno dall’intervento, e la possibilità di lavorare o, nei casi pediatrici, di frequentare la scuola, senza gli effetti cognitivi negativi dovuti alle crisi e, talvolta, alla terapia farmacologica”.

Si calcola che in Italia almeno 7000-8000 pazienti potrebbero essere operati ogni anno per rimuovere la zona cerebrale responsabile delle crisi epilettiche focali. Tuttavia, a fronte di migliaia di soggetti candidati alla terapia chirurgica dell’Epilessia, ogni anno sono effettuati in tutta Italia non più di 300 interventi neurochirurgici specifici. Un ampliamento e potenziamento dei Centri per la Chirurgia dell’Epilessia potrebbe ridurre i tempi di attesa per poter accedere alla terapia chirurgica.

Cosa si fa se l’intervento non è possibile

Per chi presenta una forma di epilessia farmacoresistente e non può essere operato perché le crisi trovano origine da più zone del cervello o perché l’intervento potrebbe causare danni neurologici rilevanti e permanenti, è possibile ricorrere a terapie palliative che possono ridurre frequenza e intensità delle crisi e magari alleggerire la terapia con farmaci, come la Stimolazione Vagale, la Deep Brain Stimulation (DBS), e la dieta chetogenica.

Cos’è e come funziona la stimolazione vagale

La stimolazione vagale consiste nell’invio al nervo vago di stimoli elettrici, tramite un generatore di impulsi posizionato sottocute a livello della clavicola, attraverso un elettrodo applicato chirurgicamente; tale stimolazione (Stimolazione del Nervo vago SNV) può ridurre la frequenza delle crisi e garantire un miglioramento della qualità di vita. Esistono anche altre tecniche di neurostimolazione e Deep Brain Stimulation (DBS). Infatti negli ultimi anni sono state messe a punto alcune metodiche che consentono la possibilità di stimolare direttamente, tramite elettrodi impiantati in regioni cerebrali diverse, alcune aree corticali o sottocorticali in grado di modulare e modificare l’attività epilettica. Tali tecniche, eseguibili solo presso Centri altamente specializzati, sono ad oggi riservate a soggetti farmacoresistenti selezionati.

A cosa punta la dieta chetogenica

La dieta chetogenica ha dimostrato di migliorare il controllo delle crisi nelle persone con epilessia e viene anche usata per trattare alcune patologie metaboliche quali i quadri di GLUT1 (deficit di proteina di trasporto del glucosio) e PDH (carenza di piruvato deidrogenasi). Variano, in realtà, le formulazioni dietetiche che possono essere utilizzate: dieta chetogenica classica, dieta a base di trigliceridi a catena media e dieta Atkins modificata.

La dieta chetogenica classica si basa su un regime nutrizionale contenente un’elevata percentuale di grassi e una ridotta quota di proteine e carboidrati. Essa si propone di indurre uno stato di chetosi cronica che simula sul piano metabolico gli effetti del digiuno. Con questa dieta si obbliga l’organismo a utilizzare i grassi invece del glucosio come fonte di energia, mantenendo deliberatamente elevato lo sviluppo di corpi chetonici. Questo regime alimentare va seguito sotto la supervisione di un epilettologo e un dietista.

Fonti bibliografiche

Epilessia farmacoresistente, diverse soluzioni possibili, LICE

Fondazione italiana per la ricerca sulla epilessia