Quando si parla di “seguire la propria strada”, sembra che esistano due grandi narrazioni dominanti.
La prima è quella tradizionale, che vede la vita come un percorso a tappe ben precise: studiare, laurearsi, trovare un lavoro stabile, sposarsi, avere figli, andare in pensione. Un copione lineare, quasi un sentiero già tracciato, dove chi devia rischia di essere visto come “in ritardo” o “fuori strada”.
Poi c’è la narrazione opposta, quella che demolisce l’idea delle tappe obbligate e promuove il mito della vocazione. Qui il messaggio è chiaro: non accontentarti, trova la tua strada, segui la tua passione! Un invito alla scoperta di sé, alla libertà di scegliere, a rifiutare ogni schema imposto.
Entrambe queste visioni, per quanto affascinanti, sono un po’ estreme. Forse il punto non è scegliere tra due opposti, ma capire come integrarli in modo più realistico.
Se è vero che non esiste un percorso unico valido per tutti, e che nessuno è in ritardo perché ognuno arriva dove può con ciò che ha, è altrettanto vero che l’ossessione per la vocazione può trasformarsi in una fonte di ansia e inadeguatezza. L’idea di dover per forza trovare una strada che ci rappresenti al 100% può paralizzare anziché liberare.
Quindi, come stanno davvero le cose? In questo articolo proviamo a esplorarle, senza rigidi schemi e senza facili illusioni.
Indice
Strappare lungo i bordi
A molte di noi la vita è stata raccontata, anche indirettamente, come un percorso a tappe obbligate. Si nasce con un tracciato già segnato: studiare, diplomarsi, laurearsi, trovare un lavoro, sposarsi, fare figli, costruire una carriera, andare in pensione.
Un binario prestabilito dove ogni fase ha il suo momento “giusto”, la sua età, e deviare significa essere in ritardo o fuori posto.
Nella serie animata Strappare lungo i bordi, Zerocalcare racconta questo binario con una metafora perfetta: da piccoli ci danno un disegno da ritagliare e ci dicono che basta seguire i contorni per far venire fuori una forma precisa. Ma cosa succede se le forbici scivolano, se il bordo non è così netto, se il risultato finale non assomiglia affatto a quello che avevamo immaginato?
Molte persone si sentono così: come se avessero sbagliato a ritagliare la loro vita, come se fossero rimaste indietro mentre gli altri completavano il puzzle senza sbavature. Il problema è che questo modello parte da un presupposto sbagliato: che esista una forma giusta e che il valore di una persona si misuri dalla sua capacità di rientrarci dentro.
La vita però non è un cartone prestampato.
Non esiste un tempo corretto per ogni tappa, non esiste una sequenza obbligata. Non esistono nemmeno delle tappe valide e uguali per tutti! È la pressione sociale che ci porta a confrontarci con gli altri e a pensare che “dovremmo essere già a quel punto”.
La verità è che nessuno ritaglia perfettamente lungo i bordi. Ognuno va avanti con il foglio che ha, con i tagli più o meno precisi che è riuscito a fare. E questo non rende il disegno meno valido, solo più autentico.
Segui la tua strada! Ma quale, esattamente?
D’altra parte, c’è questa idea che si possa – e si debba – seguire la propria strada, trovare la propria vocazione, scoprire chi si è davvero e costruire una vita in perfetta armonia con questa rivelazione.
«Segui la tua strada!», «Trova il tuo percorso!», «Ascolta il tuo cuore!» – sono frasi che stanno bene su una tazza motivazionale. Ma nella vita reale, cosa significano?
L’idea di avere un percorso unico, una direzione tutta nostra da scoprire e seguire con determinazione è molto diffusa.
È un concetto rassicurante perché ci fa credere che da qualche parte, là fuori, ci sia una strada giusta che aspetta solo di essere trovata. Messa così, sembra quasi che la vita sia una caccia al tesoro, dove il premio finale è una carriera appagante, una relazione perfetta, una missione chiara e definita. Peccato che questa idea, più che motivare, spesso crei ansia e senso di inadeguatezza.
L’idea che esista una “strada giusta” implica infatti che ci siano anche molte strade sbagliate. E questo è un problema. Perché se penso che la mia felicità dipenda dal trovare quella strada e temo di non essere sulla buona strada, rischio di restare paralizzata.
“E se stessi prendendo la decisione sbagliata?”
“E se avessi perso l’occasione della vita senza accorgermene?”
La verità, anche qui, è che non esiste un’unica scelta giusta. Esistono tante scelte, piccole e grandi, che ci portano in direzioni diverse, ognuna con le sue opportunità e le sue sfide.
Quindi: l’idea che ognuna di noi abbia una vocazione precisa da scoprire suona motivante, ma spesso ha l’effetto opposto.
Più cerchiamo risposte definitive, più ci sentiamo bloccate.
Il rischio abbastanza concreto è quello di passare anni in attesa di una rivelazione, senza mai fare il primo passo.
Nella mia esperienza, ho visto molte persone bloccarsi proprio su questo punto. E se la mia strada fosse un’altra? E se avessi sbagliato tutto? E se stessi perdendo tempo? Dubbi legittimi, ma spesso basati su quel presupposto troppo rigido che la nostra vita debba seguire un tracciato predefinito e che il nostro compito sia solo scovarlo.
… e se la strada giusta non fosse qualcosa da trovare?
Se la strada giusta la trovassimo costruendola?
Un’altra idea molto diffusa è quella secondo cui prima dobbiamo capire cosa vogliamo e poi scegliamo cosa fare della nostra vita.
Sembra sensato, ma può anche essere una trappola. Aspettare di avere certezze prima di agire spesso porta a un’unica conseguenza: non agire mai.
Diversi studi neuroscientifici e psicologici confermano che l’azione precede spesso la consapevolezza cosciente.
Le ricerche sul cervello motorio, ad esempio, mostrano che le decisioni iniziano a formarsi a livello neurale prima che ne diventiamo consapevoli, suggerendo che il cervello codifica le intenzioni d’azione in modo subconscio. Inoltre, la corteccia motoria supplementare, coinvolta nella pianificazione dei movimenti, valuta continuamente le opzioni disponibili, influenzando le nostre scelte molto prima che ne abbiamo un quadro razionale chiaro.
In altre parole, fare qualcosa ci aiuta a chiarire cosa vogliamo davvero.
Se vogliamo andare sul concreto, molte di quelle che oggi consideriamo “persone di successo” non avevano un piano chiaro all’inizio.
- Steve Jobs studiava calligrafia senza sapere che quelle lezioni avrebbero influenzato il design dei primi computer Apple;
- J.K. Rowling ha scritto Harry Potter mentre viveva un periodo difficile, senza immaginare che sarebbe diventata una delle autrici più lette al mondo.
E questi sono solo due esempi! Il punto è che non serve avere tutto chiaro prima di partire. L’importante è iniziare. Il resto si aggiusta strada facendo.
Il paradosso della scelta
Proprio perché oggi abbiamo così tante opportunità – nel lavoro, nelle relazioni, nei percorsi personali – prendere una direzione sembra ancora più difficile. È come quando apri una piattaforma di streaming per guardare un film e, invece di iniziare a vedere qualcosa, passi minuti (o ore) a scorrere il catalogo.
Più opzioni hai, più diventa difficile decidere. È il paradosso della scelta: invece di facilitare la decisione, l’abbondanza di possibilità genera confusione, stress e insoddisfazione.
La ricerca dimostra che troppe opzioni attivano circuiti cerebrali legati al conflitto, aumentando lo stress decisionale e rendendo più difficile agire. La corteccia cingolata anteriore, un’area del cervello coinvolta nella gestione dei conflitti, si sovraccarica quando troppe alternative competono tra loro, bloccando l’azione invece di facilitarla. Questo spiega perché rimaniamo incastrate nel dubbio e continuiamo a cercare, rimandando o boicottando la scelta.
E, soprattutto, è un ulteriore punto in favore del fare: perché la chiarezza arriva spesso mentre si cammina.
Se aspettiamo di essere sicure al 100% prima di agire, rischiamo di restare ferme.
Quindi meglio una direzione imperfetta che restare bloccate a scorrere il catalogo delle possibilità della vita.
Il rimpianto delle alternative non scelte
Anche quando riusciamo a prendere una decisione, un’altra trappola ci aspetta: il confronto con le possibilità scartate.
“E se avessi scelto l’altra strada? Sarebbe stata meglio?”
Questa sensazione è così comune da avere un nome preciso in psicologia: pensiero controfattuale, ovvero la tendenza a immaginare scenari alternativi che non esistono e a rimuginare su cosa sarebbe potuto accadere se avessimo fatto una scelta diversa.
Si tratta di un bias cognitivo, un errore sistematico del nostro modo di pensare. Il cervello tende a costruire una narrazione parallela in cui la strada non percorsa appare sempre più attraente, meno faticosa o più soddisfacente di quella che abbiamo scelto.
Ma è un’illusione.
Perché? Perché confrontiamo la realtà con un’ipotesi idealizzata.
Quando pensiamo a un’alternativa che non abbiamo scelto, tendiamo a immaginarla solo nei suoi aspetti positivi, senza considerare i problemi e le difficoltà che avrebbe potuto comportare. In altre parole, confrontiamo la nostra scelta reale – con tutte le sue imperfezioni – con una versione romanzata di quello che sarebbe potuto essere.
E così alimentiamo insoddisfazione e dubbi continui, senza alcun dato reale a sostegno.
Non possiamo sapere come sarebbe andata.
Possiamo solo fare il meglio con ciò che abbiamo scelto e aggiustare la rotta lungo il cammino.
Rimpiangere le scelte non fatte significa sprecare energie su qualcosa di inesistente, invece di concentrarci su ciò che è possibile costruire nel presente.
La trappola della coerenza a tutti i costi (e la paura del giudizio)
Se il rimpianto per le scelte non fatte può bloccarci nel dubbio, anche l’eccessivo attaccamento a quelle fatte può diventare un problema. A volte ci rendiamo conto che la strada che stiamo percorrendo non ci rappresenta più ma, invece di cambiarla, restiamo ferme, per inerzia.
Perché?
Perché abbiamo già investito tempo, energie, denaro. E, nondimeno, perché temiamo il giudizio degli altri. Cosa penseranno se mollo? Se cambio idea? Se prendo una strada che nessuno capisce?
Questa è la fallacia dei costi sommersi, un meccanismo psicologico ben studiato e documentato: più investiamo in qualcosa, più facciamo fatica ad abbandonarlo, anche quando sappiamo che non ci sta portando da nessuna parte.
È il motivo per cui alcune persone rimangono in relazioni infelici, in percorsi di studio che non le appassionano più, in lavori che non amano, solo perché “ormai ci sono dentro”.
E spesso, più che il timore di perdere ciò che hanno investito, pesa la paura di come verrà percepito il loro cambiamento dagli altri.
Paul Watzlawick, nel suo libro Istruzioni per rendersi infelici, descrive perfettamente questa dinamica: una delle regole per una vita infelice è non contraddirsi mai, rimanere coerenti a tutti i costi, anche quando quella coerenza significa soffrire.
Il messaggio implicito con cui siamo cresciute è che cambiare idea equivale a non essere affidabili, a deludere le aspettative altrui, a perdere credibilità. Ma la verità è che coerenza non significa restare immobili, significa essere fedeli a sé stesse, anche quando ciò comporta cambiare strada.
Se ti stai chiedendo se dovresti continuare o meno, prova a porti queste domande:
- Sto andando avanti per convinzione o solo per paura di ciò che penseranno gli altri?
- Se oggi dovessi iniziare da zero, sceglierei ancora questa strada?
- Sto restando per non buttare via ciò che ho investito o perché voglio davvero esserci?
A volte, la scelta più saggia non è stringere i denti, ma lasciare andare e ripartire, senza chiedersi se gli altri approveranno.
Identità in movimento: tu non sei mai un prodotto finito
Abbiamo visto come il mito della strada giusta possa bloccarci, come il paradosso della scelta renda difficile agire e come il rimpianto e la paura del giudizio possano intrappolarci in percorsi che non ci appartengono più.
Ma voglio lasciarti con una ulteriore riflessione.
Se smettessimo di pensare alla nostra identità come qualcosa da trovare e iniziassimo a viverla come qualcosa da costruire?
La psicologia ci dice che non siamo entità fisse, ma persone in continua evoluzione.
In poche parole, non c’è una versione definitiva di noi da scoprire, ma un processo di crescita che dura tutta la vita.
Carol Dweck, con la sua teoria del Growth Mindset, spiega che l’identità non è qualcosa di statico, ma qualcosa che si modella con l’esperienza.
Ogni scelta, ogni errore, ogni deviazione aggiunge un pezzo al puzzle e ciò che oggi ci sembra irrilevante potrebbe rivelarsi fondamentale domani.
Forse la domanda giusta quindi non è “Qual è la mia strada?”, ma “Quali possibilità voglio esplorare adesso?”.
Non serve sapere tutto prima di partire, né restare incastrate nella paura di sbagliare.
Perché la strada giusta, forse, non si trova. Si costruisce, passo dopo passo.