Sindrome di Pollyanna: quando pensare positivo non è sempre un bene

"Felici" sempre e comunque, sostiene Pollyanna. Eppure pensare positivo, anche quando le situazioni non lo sono, non è sempre un bene

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Sorridere sempre, pensare in positivo, guardare solo il rovescio più luccicante della medaglia e non arrendersi mai. Tutte cose, queste, che ci vengono ripetute ogni giorno e che si sono trasformate in un fenomeno dalla portata globale e che tutti conosciamo come “scienza della felicità“.

L’obiettivo del resto è nobile, ed è quello che invita tutti a praticare l’ottimismo sempre e comunque. Una missione ambiziosa che passa per un indottrinamento collettivo che non esclude nessuno, perché in fondo tutti desideriamo essere felici. Ma qual è il prezzo da pagare?

È bene ricordare che le emozioni non si costruiscono, né tanto meno si inventano. Possiamo gestirle certo, ma solo se impariamo ad accoglierle e ad affrontarle, e mai a reprimerle, anche quando ci fanno paura. Ecco perché pensare positivo, ignorando quello che abbiamo dentro e che succede fuori, non è sempre un bene. Ecco perché dovremmo sconfiggere una volta e per tutte la sindrome di Pollyanna.

Cos’è la sindrome di Pollyanna

Gli esperti parlano di positività tossica per riferirsi a quell’atteggiamento forzatamente ottimistico che assumiamo tutte le volte che ci troviamo davanti a un problema o a un ostacolo. Non c’è niente di male in questo intendiamoci, la volontà di trovare una soluzione davanti a un problema è sempre ammirevole, a patto che il desiderio di farlo non oscuri quello che davvero sentiamo.

Sì perché quell’atteggiamento be positive, che negli ultimi anni si è trasformato in una vera e propria tendenza da esporre in vetrina, rischia di farci perdere di vista la cosa più importante che abbiamo: le nostre emozioni reali e autentiche. Siamo davvero ottimisti o ci siamo lasciati influenzare da quello che gli altri ci hanno consigliato o che si aspettano da noi? Ma soprattutto: come ci sentiamo davvero quando ci troviamo davanti a un ostacolo?

“Felici” risponderebbe Pollyanna, sempre e comunque. La protagonista dei romanzi di Eleanor H. Porter, pur non avendo ricevuto sconti dalla vita, ci ha insegnato che c’è sempre un motivo per essere felici. Un tentativo lodevole, il suo, che ci ricorda che è importante essere grati nei confronti di tutto ciò che abbiamo a patto però di non reprimere quello che davvero sentiamo dentro.

Perché la verità è che non sempre è possibile vedere il lato positivo delle cose. Perché per quanto ci sforziamo di sostenere il contrario, e di volerlo con tutte le nostre forze, alcune cose che accadono non hanno nulla di positivo.

La positività tossica non ha nulla di positivo

La prima persona a parlare di sindrome di Pollyanna, in riferimento a quell’atteggiamento che esalta gli aspetti positivi a discapito di quelli negativi, è stata la psicologa cognitiva Margaret Matlin che ha parlato di questo comportamento come un ottimismo ingenuo.

La sindrome non è altro che una trasposizione reale di quel gioco della felicità messo in atto dalla protagonista del romanzo, poi adattato al grande e al piccolo schermo, per trovare i lati positivi anche in situazioni negative e drammatiche.

Secondo la psicologa, questo comportamento mette in atto uno schema selettivo che ignora gli aspetti negativi e problematici di una situazione non permettendo quindi di avere una visione reale e concreta di tutto ciò che accade. Il rischio, però, è quello di creare una realtà distorta, ben diversa da quella che è, che non solo non ci fornisce gli strumenti giusti per affrontarla, ma non ci permette di crescere, si sbagliare e di cambiare.

Questo non vuol dire che bisogna rinunciare all’ottimismo, alla speranza o alla positività, intendiamoci, quanto più che dobbiamo accogliere anche le situazioni negative, e tutte le loro conseguenze, per imparare da queste. Perché la nostra vita è fatta di luce, ma per raggiungerla è necessario camminare nel buio ogni tanto.