Può un – almeno apparentemente – innocuo suffisso alimentare sino ad arrivare a perpetuare la cultura ultra-consumistica nella quale siamo immersi? Stando alla diffusissima smania di polemizzare per partito preso circa qualsivoglia argomento, chiaramente sì. Ma cosa c’è di vero? C’è che, più o meno consapevolmente, -core dopo -core agganciato a termini atti a rendere identificabile una specifica nicchia, destinata a divenire la collettiva ossessione del momento, milioni di giovani spinti dal bisogno viscerale di trovare il proprio spazio aderiscono continuamente a mode del tutto passeggere. Va da sé come questo ricalchi le puntuali basi del consumismo.
Eppure vi è un colpo di scena: nasce ora l’anti-core per eccellenza o, quantomeno, nella nobiltà delle sue intenzioni. Da TikTok con furore – patria di ogni buona e cattiva tendenza – giunge a noi un nuovo trend a ribaltare il significato dei precedenti. Si chiama underconsumption core e proviene dal genuino rifiuto da parte delle generazioni più giovani dell’eccedenza fine a sé stessa, in favore di un approccio più consapevole e moderato al consumo.
Indice
Cos’è e da dove nasce l’underconsumption core
Secondo i consueti fulminei ritmi di propagazione dell’ashtag sulla piattaforma, anche l’antitendenza in oggetto sta subendo un’impennata, espandendosi a macchia d’olio non soltanto su TikTok. La politica che viene portata avanti punta al minimalismo ed al riuso: i creators – prevalentemente appartenenti alla cosiddetta GenZ – forniscono giornalmente il proprio personale esempio e contributo alla causa, mostrando agli utenti quali passi compiono nel loro piccolo per ridurre l’impatto ambientale con le proprie abitudini. C’è chi riutilizza allo stremo lo stesso identico paio di scarpe sino a consumarlo visibilmente, chi ripara i segni d’usura sui propri vestiti anziché correre immediatamente a comprarne di nuovi, chi limita i prodotti atti alla skincare ed alla manutenzione della casa.
Quella che potrebbe avere tutta l’aria di essere una vera e propria presa di posizione contro il fast-fashion ingloba invero più e più ambiti, e nasconde in realtà un bisogno ben più profondo dell’essere umano il quale ha una correlazione diretta alla situazione geopolitica attuale. L’intreccio tra la crisi economica e la crescente paura rispetto all’instabilità del futuro è radicato nella mente delle nuove generazioni. Di fronte a tale sentimento e spinti dall’underconsumption core i giovani stanno tentando di agire sul presente, cercando di plasmarlo sul calco dei propri bisogni e desideri. C’è la volontà collettiva – o almeno così pare – di rimescolare le carte e rimettere in fila le priorità, lontano il più possibile dall’eccesso senza freni pubblicizzato dai social, dapprima semplici piattaforme finalizzate alla condivisione di contenuti ed ora potenti strumenti di marketing nelle mani dei brand.
Il concetto cardine che si pone alla base di quello che sembra più un autentico stile di vita si staglia, in breve, contro il consumismo estremo, spesso nutrito dai social network e dall’onda della viralità, che tendenzialmente puntano a mettere in luce la bellezza del possedere per il puro piacere del gesto. Gli influencers mostrano i propri più recenti acquisti alla ricerca dell’ultima novità, le proprie collezioni riposte in cassetti stracolmi di prodotti e guardaroba traboccanti di abiti (che difficilmente si avrà il tempo e il modo di sfruttare) ed il tutto a favor di camera. Quello che si potrebbe definire “trend del sottoconsumo” nasce, con ogni probabilità, dal volere di ribellarsi a tali contenuti per chetare in qualche modo l’eco-ansia e sopperire al mancato senso di responsabilità verso le generazioni che verranno, lasciando a queste in eredità un pianeta quantomeno vivibile.
Non si tratta però di essenzialità o minimalismo, piuttosto di sensibilizzare ed indurre alla piena consapevolezza che la qualità sia superiore alla quantità. In pillole, il pensiero basilare della cara vecchia filosofia del “pochi, ma buoni”.
Anche l’underconsumption core è una moda destinata a morire?
Seppur di fronte ad una iniziativa social sana ed equilibrata nella teoria, vi è ovviamente il rovescio della medaglia: se da una parte c’è chi vive l’ascesa dell’underconsumption core come un passo che si attendeva da tempo, dall’altro c’è chi storce il naso. La stessa possibilità – secondo questa seconda categoria – di aderire spontaneamente a tale trend resta comunque un privilegio rispetto a coloro che non possono permettersi altrimenti. In sintesi tutto questo è vissuto come un mero tentativo di attirare consensi, rendendo accattivante e, per così dire, “aesthetic” la pura normalità.
Anche il consumismo, però, è una pericolosa normalità. Normalità che rende del tutto eccezionale una sana attitudine verso gli acquisti, tanto da farla sembrare fuori dagli schemi. È vero, come ogni altra moda probabilmente anche l’underconsumption core è destinata a sopperire nel breve tempo e certamente non cambierà il mondo, ma se potesse indurre a riflettere? Invitare molti di noi a modulare le proprie abitudini, lasciandosi trascinare progressivamente meno da micro-tendenze emergenti?
Come si applica l’underconsumption core al mondo della moda: le strategie per un consumo più consapevole
Far sì che la controtendenza non finisca nel dimenticatoio, subendo la medesima sorte del meccanismo che per stessa definizione denuncia, è anche e soprattutto compito nostro. Trattasi di ricalibrare le proprie necessità, assumere consapevolezza circa il proprio effettivo potere sul consumismo ed attuare un ritorno alla normalità, forse valutata un po’ noiosa e poco glamour ma pur sempre sana. Come celebrarla e renderla affascinante?
Non si deve necessariamente perdere il gusto di acquistare, tutt’altro. La relazione con la propria sfrenata passione per l’avanguardia nella moda non deve essere considerata giunta al capolinea. Mai sentito parlare di less is more? C’è una labile ma sostanziale differenza tra shopping consapevole e acquisti di scarsa qualità. Comprare meno per comprare meglio, e così dominare la compulsione di un acquisto fatto d’impulso – poco ragionato o emotivo – può persino equivalere al riuscire a mettere da parte più soldi da poter investire in capi di lusso, migliori, che siano prima di tutto più longevi. Meglio ancora se vintage.
Quel capo oramai usurato, ma al quale si tende inevitabilmente ad attribuire una sorta di valore affettivo, non deve necessariamente essere buttato: lo si può riparare, rinnovare tramite toppe, spille, rinfrescare con una tinta tutta nuova. In questo modo si darà origine ad un pezzo unico, custom-made, uguale a nient’altro. Nel caso di nuovi acquisti, invece, è importante prestare attenzione ai materiali, che siano naturali e riciclabili.
Una buona alternativa per soddisfare la solita – normalissima anch’essa – voglia di shopping potrebbe essere quella di dirigere la propria attenzione verso capi di seconda mano: negli ultimi anni si è sviluppato sempre un maggior interesse nei confronti del second hand, con la nascita di app ad hoc che permettono non solo di acquistare ma anche di disfarsi di ciò che non ci piace più e che potenzialmente potrebbe piacere ad altri, a loro volta ben felici di dare nuova vita a vecchi pezzi d’abbigliamento con cui sostituire o arricchire i propri.
Basti pensare che appena un paio di scarpe per modello – accuratamente selezionate nei colori, quelli che ci stanno meglio e che meglio si abbinano al resto del guardaroba – e qualche borsa di tendenza, messe in scala secondo l’evenienza più sontuosa sino a quella più formale, possono concorrere abbondantemente nella creazione di un arsenale fashion infallibile, all’insegna dell’unicità e della semplicità. Che sia sì d’impatto, ma di qualità insomma.
Più come un modo come un altro per ostentare, forse l’underconsumption core dovrebbe essere concepita come un prezioso incoraggiamento ad usare le proprie risorse in modo ragionato. Un’occasione per ripartire a dare il giusto valore alle cose, ormai così scontate, a partire da quelle piccole e tangibili.