Minority stress. Quando pregiudizi e discriminazioni fanno male alla salute

Lo stress cronico a cui sono sottoposte alcune minoranze può avere ripercussioni sulla salute e sul benessere. Ecco perché l’inclusività è importante.

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Veronica Colella

Sex Editor

Content writer con una laurea in Scienze antropologiche e un passato tra musei e archivi. Scrive di sessualità e questioni di genere da un punto di vista sex positive, con la consapevolezza che non esistono risposte semplici a psicodrammi complessi.

Stereotipi, pregiudizi e discriminazioni fanno male alla salute. Non solo perché alimentano comportamenti ostili nei confronti di chi ne è oggetto, ma anche per via dell’implicita condizione di svantaggio vissuta da chi, per un motivo o per un altro, è considerato l’eccezione e non la norma. Essere parte di una minoranza in una società poco attenta all’inclusione significa infatti doversi muovere e orientare in un contesto pensato su misura della maggioranza, vera o percepita.

È da considerazioni di questo tipo che nasce il modello teorico del minority stress, formulato a metà degli anni ’90 dall’epidemiologo e psichiatra Ilan H. Meyer per rendere conto del particolare tipo di stress a cui sono sottoposte le cosiddette minoranze sessuali.

Quali differenze?

Tutti gli esseri umani sono portatori di differenze ma solo alcune di queste sono significative sul piano sociale, spiegano gli psicoterapeuti Paolo Rigliano, Jimmy Ciliberto e Federico Ferrari nel volume Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità (Raffaello Cortina Editore). Alcune sono immediatamente riconoscibili – come il colore della pelle, la conformazione del corpo o il modo di parlare – altre meno. Alcune condizionano comportamenti e credenze, come le appartenenze culturali e religiose, altre possono mutare nel tempo o rimanere stabili, essere centrali o marginali nella vita di una persona. Ma quelle legate all’orientamento sessuale sono “diversamente differenti”: possono isolare anche dal resto della propria famiglia, creare fratture con la propria comunità di appartenenza o essere vissute dall’interno come qualcosa di indesiderato.

In una società in cui si tende a dare per scontato che l’eterosessualità rappresenti la norma, chi si discosta da questo modello rappresenta un imprevisto. Poche famiglie mettono in conto questa eventualità fin dal principio e non è scontato neppure che si conoscano le parole adatte per sapersi definire. È una differenza che può fare sentire soli, esistenzialmente e socialmente. Figuriamoci se oltre all’orientamento si deve mettere in discussione anche la propria identità di genere, come nel caso delle persone transgender o non-binarie.

Lo stress cronico e i suoi rischi

«Per capire il concetto di minority stress dobbiamo fare un passo indietro e risalire al contesto in cui è stato sviluppato» chiarisce la dottoressa Roberta Calvi, psicologa e psicoterapeuta a Rimini. «L’omosessualità è stata definita una variante naturale della sessualità umana dall’OMS solo nel 1990, alla fine di un lungo percorso di depatologizzazione che l’ha portata a essere cancellata dal manuale diagnostico. La cultura però non si è adeguata immediatamente al parere della comunità scientifica, anche se oggi la situazione è migliore rispetto a 25 anni fa. Gli studi di Meyer hanno permesso di riconoscere lo stress cronico che ha reso per decenni le persone LGBT+ più vulnerabili a disturbi dell’umore o del comportamento alimentare, al rischio di sviluppare dipendenze o comportamenti autolesivi, persino al suicidio. Uno stress che non dipende dalla differenza in quanto tale ma da come viene interpretata nel contesto sociale: stereotipi negativi e discriminazioni minano l’autostima e possono portare a una non-accettazione di sé stessi, soprattutto se viene a mancare una rete di supporto. In generale, lo stress può essere definito come una pressione costante che può avere effetti collaterali anche a lungo termine. Corpo e mente non sono davvero separati, la sofferenza emotiva o psichica si riflette anche sul sistema nervoso e sul comportamento».

Le tre dimensioni del minority stress

Nel modello di Meyer, lo stress non riguarda solo il mondo esterno e le sue reazioni. Sono coinvolti diversi aspetti, inclusa la consapevolezza di sé e l’autostima. «Una prima dimensione del minority stress riguarda le discriminazioni dirette e indirette: le aggressioni fisiche, sessuali o verbali oppure le valutazioni negative fatte a voce alta da familiari e colleghi o attraverso i media. In altre parole, è lo stress legato al non essere riconosciuti come normali e sani. Poi c’è un secondo aspetto, quello dello stigma percepito» prosegue l’esperta. «Chi vive in un ambiente ostile si aspetta di essere svalutato e respinto, al di là del fatto che abbia vissuto violenze o umiliazioni. L’orientamento sessuale non è una caratteristica visibile come può essere il colore della pelle: il timore è che facendo coming out si possano perdere l’affetto e la stima degli altri. Infine, c’è l’omonegatività interiorizzata. Preferisco usare questo termine rispetto a omofobia perché più ampio: anche in assenza di una fobia vera e propria si riferisce in generale agli atteggiamenti di ostilità e negatività legati all’orientamento e alle relazioni omosessuali, agli stereotipi squalificanti e alle espressioni di disapprovazione che si finisce per assorbire e fare proprie».

Invisibilità: superpotere o maledizione?

Il fatto che l’orientamento sessuale si possa nascondere non è necessariamente un vantaggio. «La possibilità di dissimulare o nascondere il proprio orientamento può creare un conflitto interiore difficile da gestire, in particolare per chi cresce in contesti fortemente eteronormativi. La paura del rifiuto può portare a vivere una vita non autentica, o al timore costante di essere scoperti, identificati e quindi stigmatizzati» spiega la dottoressa. Per le persone bisessuali la situazione può complicarsi ulteriormente, sia che si viva una relazione eterosessuale che omosessuale. Gli stereotipi negativi sulla loro presunta promiscuità o inaffidabilità possono spingere a omettere in maniera strategica dettagli della propria storia sentimentale, o a non vedere riconosciuto il proprio orientamento. «Se poi consideriamo anche l’identità e l’espressione di genere, la questione è ancora più complessa: le persone transgender e non-binarie sono di fatto invisibili agli occhi della società».

Perché l’inclusività è importante

Fortunatamente, alcuni di questi fattori di stress non sono pervasivi e diffusi come prima. Per quanto nessuna conquista si possa dare per scontata e la diversità di posizionamenti renda difficile creare una comunità coesa, la sensibilità delle nuove generazioni è più aperta e inclusiva. «Almeno a livello dei pari le nuove generazioni possono contare su maggiore serenità e accettazione, anche se lo scoglio della famiglia rimane complesso per via del gap generazionale. Più la cultura diventa aperta e inclusiva e più si alleggerisce quella tensione che almeno in una quota minima provano tutte le persone non-eterosessuali e non-cisgender. Va anche detto che chi ha affrontato e superato queste esperienze sviluppa una resilienza maggiore, ma è fondamentale trovare supporto e accoglienza. In questo senso sarebbe importante anche formare adeguatamente i professionisti in ambito clinico e sanitario: dare per scontato l’orientamento o l’identità di genere del paziente costringe la persona a rettificare, a entrare in una dinamica di dissenso con il proprio medico o terapeuta. Dare invece spazio all’affettività e all’espressione di sé predispone a un clima di confidenza e di fiducia, migliorando anche l’accesso e la qualità delle cure» conclude la psicologa.