Stereotipi, pregiudizi e discriminazioni fanno male alla salute. Non solo perché alimentano comportamenti ostili nei confronti di chi ne è oggetto, ma anche per via dell’implicita condizione di svantaggio vissuta da chi, per un motivo o per un altro, è considerato l’eccezione e non la norma. Essere parte di una minoranza in una società poco attenta all’inclusione significa infatti doversi muovere e orientare in un contesto pensato su misura della maggioranza, vera o percepita.
È da considerazioni di questo tipo che nasce il modello teorico del minority stress, formulato a metà degli anni ’90 dall’epidemiologo e psichiatra Ilan H. Meyer per rendere conto del particolare tipo di stress a cui sono sottoposte le cosiddette minoranze sessuali.
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Quali differenze?
Tutti gli esseri umani sono portatori di differenze ma solo alcune di queste sono significative sul piano sociale, spiegano gli psicoterapeuti Paolo Rigliano, Jimmy Ciliberto e Federico Ferrari nel volume Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità (Raffaello Cortina Editore). Alcune sono immediatamente riconoscibili – come il colore della pelle, la conformazione del corpo o il modo di parlare – altre meno. Alcune condizionano comportamenti e credenze, come le appartenenze culturali e religiose, altre possono mutare nel tempo o rimanere stabili, essere centrali o marginali nella vita di una persona. Ma quelle legate all’orientamento sessuale sono “diversamente differenti”: possono isolare anche dal resto della propria famiglia, creare fratture con la propria comunità di appartenenza o essere vissute dall’interno come qualcosa di indesiderato.
In una società in cui si tende a dare per scontato che l’eterosessualità rappresenti la norma, chi si discosta da questo modello rappresenta un imprevisto. Poche famiglie mettono in conto questa eventualità fin dal principio e non è scontato neppure che si conoscano le parole adatte per sapersi definire. È una differenza che può fare sentire soli, esistenzialmente e socialmente. Figuriamoci se oltre all’orientamento si deve mettere in discussione anche la propria identità di genere, come nel caso delle persone transgender o non-binarie.
Lo stress cronico e i suoi rischi
«Per capire il concetto di minority stress dobbiamo fare un passo indietro e risalire al contesto in cui è stato sviluppato» chiarisce la dottoressa Roberta Calvi, psicologa e psicoterapeuta a Rimini. «L’omosessualità è stata definita una variante naturale della sessualità umana dall’OMS solo nel 1990, alla fine di un lungo percorso di depatologizzazione che l’ha portata a essere cancellata dal manuale diagnostico. La cultura però non si è adeguata immediatamente al parere della comunità scientifica, anche se oggi la situazione è migliore rispetto a 25 anni fa. Gli studi di Meyer hanno permesso di riconoscere lo stress cronico che ha reso per decenni le persone LGBT+ più vulnerabili a disturbi dell’umore o del comportamento alimentare, al rischio di sviluppare dipendenze o comportamenti autolesivi, persino al suicidio. Uno stress che non dipende dalla differenza in quanto tale ma da come viene interpretata nel contesto sociale: stereotipi negativi e discriminazioni minano l’autostima e possono portare a una non-accettazione di sé stessi, soprattutto se viene a mancare una rete di supporto. In generale, lo stress può essere definito come una pressione costante che può avere effetti collaterali anche a lungo termine. Corpo e mente non sono davvero separati, la sofferenza emotiva o psichica si riflette anche sul sistema nervoso e sul comportamento».
Le tre dimensioni del minority stress
Nel modello di Meyer, lo stress non riguarda solo il mondo esterno e le sue reazioni. Sono coinvolti diversi aspetti, inclusa la consapevolezza di sé e l’autostima. «Una prima dimensione del minority stress riguarda le discriminazioni dirette e indirette: le aggressioni fisiche, sessuali o verbali oppure le valutazioni negative fatte a voce alta da familiari e colleghi o attraverso i media. In altre parole, è lo stress legato al non essere riconosciuti come normali e sani. Poi c’è un secondo aspetto, quello dello stigma percepito» prosegue l’esperta. «Chi vive in un ambiente ostile si aspetta di essere svalutato e respinto, al di là del fatto che abbia vissuto violenze o umiliazioni. L’orientamento sessuale non è una caratteristica visibile come può essere il colore della pelle: il timore è che facendo coming out si possano perdere l’affetto e la stima degli altri. Infine, c’è l’omonegatività interiorizzata. Preferisco usare questo termine rispetto a omofobia perché più ampio: anche in assenza di una fobia vera e propria si riferisce in generale agli atteggiamenti di ostilità e negatività legati all’orientamento e alle relazioni omosessuali, agli stereotipi squalificanti e alle espressioni di disapprovazione che si finisce per assorbire e fare proprie».
Invisibilità: superpotere o maledizione?
Il fatto che l’orientamento sessuale si possa nascondere non è necessariamente un vantaggio. «La possibilità di dissimulare o nascondere il proprio orientamento può creare un conflitto interiore difficile da gestire, in particolare per chi cresce in contesti fortemente eteronormativi. La paura del rifiuto può portare a vivere una vita non autentica, o al timore costante di essere scoperti, identificati e quindi stigmatizzati» spiega la dottoressa. Per le persone bisessuali la situazione può complicarsi ulteriormente, sia che si viva una relazione eterosessuale che omosessuale. Gli stereotipi negativi sulla loro presunta promiscuità o inaffidabilità possono spingere a omettere in maniera strategica dettagli della propria storia sentimentale, o a non vedere riconosciuto il proprio orientamento. «Se poi consideriamo anche l’identità e l’espressione di genere, la questione è ancora più complessa: le persone transgender e non-binarie sono di fatto invisibili agli occhi della società».
Perché l’inclusività è importante
Fortunatamente, alcuni di questi fattori di stress non sono pervasivi e diffusi come prima. Per quanto nessuna conquista si possa dare per scontata e la diversità di posizionamenti renda difficile creare una comunità coesa, la sensibilità delle nuove generazioni è più aperta e inclusiva. «Almeno a livello dei pari le nuove generazioni possono contare su maggiore serenità e accettazione, anche se lo scoglio della famiglia rimane complesso per via del gap generazionale. Più la cultura diventa aperta e inclusiva e più si alleggerisce quella tensione che almeno in una quota minima provano tutte le persone non-eterosessuali e non-cisgender. Va anche detto che chi ha affrontato e superato queste esperienze sviluppa una resilienza maggiore, ma è fondamentale trovare supporto e accoglienza. In questo senso sarebbe importante anche formare adeguatamente i professionisti in ambito clinico e sanitario: dare per scontato l’orientamento o l’identità di genere del paziente costringe la persona a rettificare, a entrare in una dinamica di dissenso con il proprio medico o terapeuta. Dare invece spazio all’affettività e all’espressione di sé predispone a un clima di confidenza e di fiducia, migliorando anche l’accesso e la qualità delle cure» conclude la psicologa.