Ti è mai successo di piangere per rabbia? Non perché fossi triste, ma perché ti sentivi sopraffatta, bloccata, senza alternative. A molte donne capita. Non perché siano fragili, ma perché non è mai stata data loro la possibilità di esprimere la rabbia in modo diretto.
Fin da bambine, abbiamo imparato che arrabbiarci “non sta bene”, che alzare la voce è da isteriche, che è più accettabile piangere che perdere la calma. Per tutta la vita ci hanno detto che siamo troppo emotive, col risultato che alcune emozioni – soprattutto la rabbia – ci sono praticamente state negate.
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Il tabù delle emozioni nei contesti “seri”
In certi ambienti – come il lavoro, le riunioni formali o perfino nelle relazioni familiari – piangere è ancora visto come qualcosa di “inappropriato”. Piangere può farci sentire sbagliate o in imbarazzo, soprattutto quando le lacrime arrivano a supporto dell’emozione della rabbia.
Ma contrariamente a ciò che la società pensa, le emozioni non sono mai fuori luogo: sono informazioni, segnali, forme di linguaggio. Il problema quindi non è piangere, ma che non ci venga insegnato a interpretare il pianto come una risorsa comunicativa.
Serve quindi un cambiamento culturale per riconoscere che la rabbia espressa attraverso le lacrime non è un errore da correggere, ma una forma di intelligenza emotiva. Siamo esseri complessi e anche il pianto ha diritto di cittadinanza nei momenti difficili.
La rabbia è preclusa alle donne
Innanzitutto dobbiamo dire che riconoscere la rabbia non è scontato, soprattutto per chi non ha mai potuto viverla e nominarla apertamente. Può sembrare assurdo, ma capita spesso di non sapere nemmeno che siamo arrabbiate. Magari sentiamo un nodo allo stomaco, un senso di ingiustizia, una fastidiosa tensione, ma fatichiamo a darle un nome.
È una situazione di confusione emotiva che riguarda sia il linguaggio che il pensiero. In psicologia si parla di alessitimia quando non si riesce a identificare e descrivere con chiarezza ciò che si prova. Non è un disturbo: è una condizione diffusa e spesso è il risultato di un’educazione emotiva che ha escluso intere parti del nostro vissuto.
Per molte donne, l’emozione rimossa è proprio la rabbia. Non ci è stato dato lo spazio per esplorarla, nominarla, usarla.
Abbiamo imparato a riconoscere la tristezza, la delusione, persino (o soprattutto) il senso di colpa, ma non la rabbia. Agli uomini, al contrario, viene spesso negata la possibilità di esprimere vulnerabilità e tristezza. Il risultato, in entrambi i casi, è una distanza dalle proprie emozioni che rende difficile capire cosa si prova davvero e ancora più difficile comunicarlo.
La rabbia, quando non trova una via d’uscita diretta, si mescola ad altre emozioni e prende forme indirette: pianto, irritazione, frustrazione, chiusura e malessere fisico.
Il pianto come “sistema di regolazione”
Le lacrime di rabbia non vanno considerate come un cedimento ma come una risposta complessa e, in molti casi, funzionale, utile alla situazione. Ovvero quando l’emozione è troppo intensa per restare dentro, il corpo attiva come sistema di autoregolazione il pianto.
Quando ci arrabbiamo, il nostro corpo entra in modalità “lotta o fuga” – un’antica risposta di sopravvivenza. Adrenalina e cortisolo si diffondono nel sangue, accelerano il battito cardiaco e tendono i muscoli.
Ma quando invece di esplodere in urla o azioni impulsive, il corpo sceglie un’altra via, entra in gioco l’amigdala, la piccola struttura cerebrale che regola le emozioni intense. È come se il cervello, nel pieno della tempesta emotiva, dicesse: “Non so come gestire tutto questo, liberiamo un po’ di pressione con le lacrime”.
Durante il pianto, il cervello rilascia ossitocina ed endorfine, sostanze che possono contribuire a ridurre lo stress e a generare una sensazione di sollievo fisico. È per questo che molte persone descrivono il pianto come liberatorio: non perché risolva la situazione, ma perché abbassa la tensione interna e permette di tornare, almeno in parte, a uno stato emotivo più gestibile.
Piangere per comunicare
Piangere non è solo un’esperienza interiore: è anche un messaggio che inviamo agli altri, anche inconsapevolmente. Le lacrime rivelano che siamo toccate nel profondo, che qualcosa ci sta veramente a cuore e che, in quel momento, siamo vulnerabili.
Secondo le teorie evolutive, questa vulnerabilità ha uno scopo preciso: disinnescare il conflitto. In altre parole, il pianto potrebbe servire a stemperare la tensione. È come se il corpo cercasse ancora una volta di proteggerci: invece di continuare lo scontro, mostra il lato fragile e cerca comprensione.
Proprio perché comunica tanto, piangere davanti ad altri può farci sentire esposte, soprattutto in contesti dove ci si aspetta che siamo composte, razionali o forti.
Piangere di impotenza
Esiste poi un tipo specifico di pianto da rabbia che nasce non tanto dallo scontro diretto, quanto da una sensazione più sottile e dolorosa: quella di non avere via d’uscita.
Accade quando abbiamo provato a farci capire, a far valere le nostre ragioni, ma ogni tentativo è stato inutile.
È proprio lì che nasce quella frustrazione profonda data dall’impotenza che si trasforma in lacrime.
In psicologia, c’è una particolare condizione che si chiama impotenza appresa. Si sviluppa quando, dopo ripetuti tentativi falliti di cambiare una situazione, smettiamo di crederci. Iniziamo a pensare che non dipenda da noi, che non abbiamo più alcun controllo. Ci sentiamo letteralmente bloccate, come incatenate a una situazione immutabile.
In quel blocco, spesso, l’unica risposta che il corpo trova è quella di piangere.
Le trappole della mente
Quando siamo arrabbiate e impotenti, il pensiero può rimanere incastrato in una gabbia mentale che amplifica la frustrazione.
Uno dei meccanismi più comuni è lo “spostamento del controllo all’esterno” (locus of control): ci convinciamo di non avere alcun potere, che tutto dipenda dagli altri, dalle circostanze, dal “destino”. Questo modo di pensare, chiamato locus of control esterno, ci rende ancora più vulnerabili perché ci fa sentire completamente in balia degli eventi.
In queste situazioni, il cervello elabora la rabbia come un dolore sociale e non è una metafora: le stesse aree cerebrali coinvolte nel dolore fisico si attivano quando ci sentiamo rifiutate, ignorate o trattate ingiustamente. Ecco perché una frase tagliente può farci male quanto uno schiaffo.
Il nostro sistema nervoso non distingue tra ferita fisica ed emotiva: entrambe ci fanno reagire, ci consumano, ci portano al pianto.
Cosa possiamo fare, concretamente
Smettere di combattere il pianto
La prima cosa da fare è smettere di vederlo come un problema. Il pianto, anche quando nasce dalla rabbia, non è un nemico da reprimere ma un segnale da ascoltare. Normalizzarlo è il primo passo per comprenderlo.
Allenarsi a riconoscere le emozioni
Spesso piangiamo senza sapere bene cosa stiamo provando. Dare un nome a quell’emozione richiede allenamento. Può aiutare scrivere cosa si è sentito, quando è iniziato, quali pensieri o situazioni lo hanno innescato. È utile per fare chiarezza.
Rivedere il proprio rapporto con il conflitto
Per molte di noi, il conflitto è qualcosa da evitare. Lo viviamo come un fallimento o come un pericolo. Ma imparare a gestirlo passa anche dal rivedere le idee che abbiamo su di esso. Un confronto con un’altra persona non è automaticamente una rottura e difendere il proprio punto di vista non significa rovinare i rapporti.
Analizzare le esperienze di impotenza
Qui è molto importante lasciare da parte la generalizzazione. Sentirsi impotenti può diventare una convinzione, soprattutto se abbiamo vissuto situazioni in cui il nostro intervento non ha portato ai risultati sperati, ma è indispensabile distinguere. Quando ci siamo sentite così? Come abbiamo agito? Il messaggio era chiaro? Era realistico aspettarsi un cambiamento? Rileggere queste esperienze con lucidità ci aiuta a capire se si è trattato davvero di impotenza… o solo di un ostacolo o di una incomprensione momentanea, che non definisce chi siamo o cosa possiamo ottenere.
Ritrovare il proprio margine di azione
L’impotenza appresa si nutre della convinzione che “tanto non serve a niente”. Ma non tutte le situazioni sono uguali e non tutto è sotto il nostro controllo. Chiedersi fin dove arriva la mia responsabilità? e dove comincia quella degli altri? aiuta a ricalibrare il proprio locus of control: non per colpevolizzarsi, ma per riconoscere con onestà cosa si può cambiare e cosa no.
Due esercizi pratici per gestire la rabbia
Infine, ti lascio due esercizi molto utili quando senti la rabbia crescere e gli occhi a bruciare.
Ricorda: quando la rabbia si manifesta con il pianto, non è il pianto che devi combattere. Puoi invece imparare a disinnescare l’attivazione che lo precede con strumenti semplici e accessibili.
Grounding 5-4-3-2-1: è una tecnica semplice ed efficace per tornare al presente e ridurre l’attivazione emotiva.
Fallo così:
- nota 5 cose che vedi;
- 4 che puoi toccare;
- 3 che puoi sentire (suoni);
- 2 che puoi annusare;
- 1 che puoi gustare.
Questo esercizio ti aiuta a spostare l’attenzione dal pensiero al corpo e ti ancora al momento presente.
Cold exposure: tieni in mano un oggetto freddo, come una bottiglietta dal frigo o una salvietta bagnata. Il freddo abbassa rapidamente l’attivazione emotiva e dà al cervello un segnale di rallentamento.