Per paura di essere esclusi o giudicati accettiamo anche l’inaccettabile

La paura di essere esclusi, e il conseguente atteggiamento di omologazione che abbiamo sviluppato per sopravvivenza, affonda le sue origini in ragioni psicologiche e sociali

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Siamo animali sociali e in quanto tali siamo sempre alla ricerca di un branco. Lo aveva già detto Aristotele, migliaia di anni fa, evidenziando tutta una serie di comportamenti che accomunano gli esseri umani. Tra questi anche il bisogno fondamentale di avere un confronto con il prossimo, di appartenere a un gruppo. Del resto sono proprio i rapporti che costruiamo con gli altri, indipendentemente dall’intensità e dalla durata, ad arricchirci in maniera unica, a contribuire al nostro personale processo di crescita, di evoluzione e di cambiamento.

Non siamo tutti uguali, questo è vero, e lo dimostrano quelle persone che, piuttosto di procedere in gruppo, preferiscono percorrere la strada meno affollata. Pecore nere o lupi solitari, due termini diversi che si riferiscono alla stessa sostanza, quella che spinge ad andare controcorrente per perseguire ideali e obiettivi al di fuori dell’ordinario che provocano, inevitabilmente, esclusione ed emarginazione.

Affascinante, coraggiosa e difficile è la vita di questi individui. Osannati dalle parole che ripetiamo ogni giorno per convincerci di fare scelte e di prendere decisioni seguendo esclusivamente le nostre regole e non quelle imposte degli altri. Dire e fare, due termini agli antipodi che non sono destinati ad incontrarsi, non in questo caso. Perché la verità è che per paura di essere esclusi e giudicati accettiamo anche l’inaccettabile.

Il bisogno di approvazione e di riconoscimento

Viviamo nell’epoca delle contraddizioni. Siamo perennemente connessi agli altri, eppure mai prima di questo momento storico ci siamo sentiti così soli. Parliamo di inclusività e accettazione, ma diventiamo ogni giorno sempre più giudicanti. Siamo circondati da guru ed esperti del benessere, quelli che promettono di svelare i segreti della felicità, eppure la depressione è stata considerata all’unanimità la malattia del secolo. Ci ribelliamo agli standard andando contro corrente, salvo poi restare intrappolati in nuove tendenze mainstream.

In questo grande paradosso, che si fonde e si confonde lasciando scoperte troppe zone d’ombra, ci siamo noi con i nostri limiti e le fragilità. Noi che cerchiamo solo un senso di appartenenza, un posto nel mondo a nostra immagine e somiglianza. Il desiderio di trovarlo, di conquistarlo e di proteggerlo è alto, ma fin dove siamo disposti a spingerci per questo?

Ogni persona è un mondo a sé, un universo di emozioni, sentimenti ed esperienze difficili da decifrare. Eppure siamo tutti, o quasi, accomunati dalla medesima necessità di approvazione e di riconoscimento. Forse il bisogno è atavico e affonda le radici nelle nostre stesse origini animali. O forse è dovuto a tutte quelle mancanze che abbiamo accumulato col tempo e che ci hanno trasformato in adulti insicuri e fragili.

Gli esperti sono d’accordo nel dire che le cause hanno diverse origini, molte delle quali hanno a che fare proprio con il passato, con l’infanzia e con l’educazione che abbiamo ricevuto. Una distanza affettiva, la mancanza di ascolto o un trauma mai risolto sono sicuramente il terreno fertile di tutte quelle insicurezze che ci trasciniamo anche da grandi. Vuoti che cerchiamo di riempire proprio attraverso le relazioni che instauriamo con gli altri.

Il bisogno di approvazione e di riconoscimento, unito alla paura di essere giudicati e non accettati, non si inserisce solo nel campo della psicologia, ma anche in quello sociologico. Le nostre stesse esperienze, infatti, ci insegnano che gli ambienti in cui siamo cresciuti e quelli dove viviamo influenzano in maniera sostanziale ogni nostra scelta. Anzi, sono proprio le aspettative degli altri, culturali e sociali, che ci instradano spesso in sentieri ben precisi che nulla hanno a che fare con i nostri sogni e le personali esigenze.

Gli esempi da prendere in considerazione sono tantissimi e il retaggio culturale che ruota intorno alla figura della donna, forse, può essere il più significativo. Per secoli, infatti, le donne hanno dovuto sottostare ai ruoli che la società aveva già scelto per loro. Mogli e madri, angeli e streghe, sante e puttane. Tutto era già stato scritto. I tentativi di ribellione, e le conseguenti oppressioni, sono storia che conosciamo bene e che, in alcune parti del mondo, viene ancora perpetuata.

Non abbiamo bisogno di allontanarci così tanto da casa o dal presente, però, per vedere come ancora quella cultura influenza le nostre decisioni nel quotidiano, che siano piccole o grandi. Spesso scegliamo di adeguarci al pensiero collettivo, lo facciamo per rientrare nelle aspettative che gli altri hanno riposto in noi, indipendentemente dai nostri ruoli. Perché quando non lo facciamo, quando ci ribelliamo a quel flusso che corre verso una sola direzione, ci sentiamo inadeguati e sbagliati. Ci sentiamo soli.

L’ignoranza pluralistica

Quante di quelle scelte che compiamo ogni giorno sono veramente il frutto della nostra volontà? Sarebbe bello poter dire tutte, ma sappiamo che così non è. Come abbiamo visto, infatti, è evidente che le nostre decisioni sono inevitabilmente influenzate da tutta una serie di fattori psicologici e sociali che non possiamo ignorare e che trovano terreno fertile proprio nel bisogno di riconoscimento, accettazione e appartenenza.

La paura di essere esclusi, e il conseguente atteggiamento di omologazione che abbiamo sviluppato per sopravvivenza, è stata oggetto di numerosi studi negli anni. Già nel 1970 gli psicologi Bibb Latané e John Darley avevano rilevato attraverso un esperimento sociale l’influenza del gruppo rispetto al singolo. Nel processo di analisi di eventi e situazioni che ci riguardano, infatti, fondamentale è il pensiero degli altri che non solo viene considerato più importante del nostro, ma che ha il potere di farci cambiare idea.

Lo spiega bene il concetto di ignoranza pluralistica, un processo sociale che si verifica proprio nelle persone che sono all’interno di uno stesso gruppo. Succede che, davanti a un evento o una situazione, il pensiero degli altri viene considerato quello giusto. Poco importano le credenze, le percezioni e le elaborazioni personali davanti a quello che la maggioranza pensa e dice. Nessuno vuole essere considerato sbagliato, strano o diverso. Solo, anche se solo non è, perché da qualche parte del mondo ci sarà sempre qualcuno che la penserà come lui, ma tanta è la paura di alzare la voce, in mezzo al coro, che l’unica scelta resta quella di conformarsi.

Guardando a questa teoria è chiaro che sì, la nostra è una società dove l’ignoranza pluralistica domina e divampa. Un atteggiamento, questo, che ci porta a omologarci con il solo obiettivo di avere il consenso dagli altri, anche a costo di rinunciare agli ideali e alle nostre convinzioni. Anche accettando l’inaccettabile.