Cosa succede nella mente quando guardiamo la guerra “online”

Anche dopo gli accordi di pace, le immagini della guerra continuano a colpirci. E i social e gli algoritmi amplificano ansia e desensibilizzazione

Foto di Donatella Ruggeri

Donatella Ruggeri

Psicologa

Psicologa, fondatrice di “Settimana del Cervello”. È una nomade digitale: lavora da remoto e lo fa viaggiando.

Pubblicato: 14 Ottobre 2025 10:12

La guerra non finisce del tutto quando si firma un accordo di pace. Anche se non si vede, continua a vivere dentro le persone, nei loro pensieri e nei loro corpi.

Riemerge anche sugli schermi, nei feed dei social, nelle immagini che tornano ciclicamente ogni anniversario, nei “ricordi di un anno fa” che ci riportano in un istante al dolore e all’angoscia.

La guerra è diventata parte del quotidiano anche per chi non la vive direttamente perchè non è più un evento lontano raccontato dai telegiornali, ma un flusso continuo di immagini, video e testimonianze che si insinuano tra le nostre mani, alternandosi a post e adv.

E anche se noi non ci troviamo in quei territori, possiamo esserne colpiti. È quello che in psicologia si chiama trauma vicario o trauma “per procura”, una ferita emotiva che nasce dall’esposizione ripetuta alla sofferenza delle altre persone.

Succede perché guardare costantemente scene di violenza o distruzione può innescare risposte nel cervello simili a quelle di chi ha vissuto la guerra sulla propria pelle.

Uno studio condotto durante la guerra israelo-palestinese del 2023, ad esempio, ha mostrato che l’esposizione mediatica continua ai contenuti di conflitto ha aumentato in modo significativo il disagio psicologico anche tra persone che vivevano a migliaia di chilometri di distanza. Questo ci ricorda che la guerra lascia tracce anche nelle menti, nelle emozioni e nelle abitudini digitali.

Cosa accade nel cervello

Quando guardiamo scene di violenza, il nostro cervello risponde come se stessimo vivendo davvero quell’esperienza. L’amigdala, una piccola struttura che regola la paura e le emozioni di difesa, si attiva immediatamente e il corpo entra in uno stato di allerta.

Questo “sistema di allarme” è un antico meccanismo di sopravvivenza nato per prepararci alla fuga o alla difesa davanti ai predatori e se una volta aveva la sua utilità, oggi, nell’ambiente digitale, dove siamo costantemente esposte a immagini drammatiche, lo stesso meccanismo può diventare una trappola.

Gli studi di neuroimaging mostrano infatti che nelle persone esposte ripetutamente a scene traumatiche (reali o mediate) l’amigdala rimane iperattiva e il cervello fatica a “spegnere” la risposta di allerta. Il risultato è una forma di stress cronico che può manifestarsi con ansia, irritabilità, difficoltà di concentrazione o insonnia, fino a sintomi tipici del disturbo post-traumatico da stress (PTSD).

In altre parole, la mente non distingue del tutto tra pericolo reale e rappresentato. Basta vedere un volto spaventato, un bombardamento, un racconto di sofferenza per attivare gli stessi circuiti neurobiologici dello stress. Questo spiega perché, dopo aver visto ripetutamente immagini di guerra o tragedie, possiamo sentirci esauste, in ansia o “svuotate”, anche se siamo fisicamente al sicuro.

I danni del doomscrolling

Accanto alle reazioni immediate del cervello di fronte a immagini traumatiche, esiste un comportamento sempre più diffuso che amplifica e mantiene questo stato di allerta: il doomscrolling.

Il termine nasce dalla fusione tra doom (rovina, sventura) e scrolling (scorrere lo schermo), e descrive l’abitudine di scorrere compulsivamente contenuti negativi o catastrofici come appunto notizie di guerra, disastri, crisi ambientali.

Il doomscrolling è diventato comune durante eventi globali come la pandemia, i conflitti armati e le crisi politiche e continuiamo a farlo anche per informarci, per cercare rassicurazione, ma quasi sempre finiamo in un ciclo difficile da interrompere che peggiora il nostro umore.

Il doomscrolling si autoalimenta perché da un lato nasce dall’ansia, dalla paura di perdersi qualcosa (FOMO, Fear of Missing Out) e dal bisogno di sentirsi in controllo in un mondo percepito come instabile. Dall’altro, è alimentato dai meccanismi tecnologici dei social media: gli algoritmi riconoscono il nostro interesse per contenuti drammatici e ci propongono sempre più notizie simili.

In questo modo, il doomscrolling diventa allo stesso tempo causa e conseguenza del malessere psicologico. Più siamo ansiose, più cerchiamo informazioni; più cerchiamo informazioni, più ci esponiamo a contenuti angoscianti; più ci esponiamo, più aumenta l’ansia. È un ciclo che si chiude su sé stesso e che, nel tempo, può compromettere il nostro equilibrio emotivo.

L’altra faccia della medaglia: l’assuefazione al dolore

Dopo un’esposizione ripetuta a contenuti scioccanti il cervello, per proteggersi, smette di reagire con la stessa intensità emotiva, creando una forma di desensibilizzazione. Questo meccanismo che appunto si innesca per proteggerci, può trasformarsi in un problema serio, soprattutto quando si combina con il funzionamento degli algoritmi e con il nostro comportamento online. Il cervello, non sentendo più la stessa intensità, finisce per ricercare stimoli sempre più forti per ottenere la stessa reazione.

È lo stesso principio che regola molte dipendenze: più si assume una sostanza, più se ne ha bisogno per sentire l’effetto. Allo stesso modo, chi è costantemente esposto a immagini di guerra o tragedia può sviluppare un bisogno di contenuti sempre più crudi o grafici, per sentire ancora qualcosa.

L’assuefazione al dolore comporta un cambiamento nel modo in cui reagiamo alla sofferenza. Tra le conseguenze più comuni troviamo:

  • Riduzione dell’empatia: il cervello non percepisce più le vittime come figure “emotivamente rilevanti”;
  • Normalizzazione della violenza: ciò che inizialmente sconvolgeva diventa familiare;
  • Dissociazione emotiva: alcune persone smettono di sentire del tutto, come se si “anestetizzassero” per difendersi dal dolore;
  • Aumento della tolleranza alla violenza: la desensibilizzazione può ridurre l’inibizione sociale e rendere più accettabili atteggiamenti aggressivi o cinici.

Il paradosso è che, mentre il cervello si assuefa, il corpo continua a reagire. Anche se non proviamo più paura o tristezza davanti a un’immagine di guerra, il sistema nervoso rimane in uno stato di allerta cronico. È come se la mente fosse stanca di reagire, ma il corpo non riuscisse a disattivarsi.

Questo spiega perché alcune persone appaiono “indifferenti” ai contenuti traumatici ma soffrono comunque di irritabilità, insonnia o attacchi di panico: il trauma resta, ma viene spostato dal piano emotivo a quello somatico.

Come si manifesta il trauma vicario

Anche chi vive la guerra solo attraverso uno schermo può sviluppare sintomi simili a quelli di un trauma diretto:

  • pensieri intrusivi;
  • difficoltà di concentrazione;
  • ansia;
  • tristezza;
  • insonnia;
  • tendenza a evitare notizie e conversazioni sul tema.

Uno studio pubblicato su The Lancet ha mostrato che persone afroamericane hanno sperimentato un forte disagio psicologico dopo aver visto video di violenza contro cittadini neri, anche senza conoscerli personalmente. Il cervello, infatti, reagisce per empatia e identificazione: più sentiamo vicine le vittime, più il trauma diventa saliente.

Alcune persone risultano più vulnerabili:

  • bambini e adolescenti, che faticano a distinguere realtà e finzione;
  • donne e persone con precedenti esperienze traumatiche, spesso esposte
  • a immagini di violenza su donne e bambini;
  • gruppi marginalizzati, per cui la violenza mediatica può riattivare traumi legati all’identità e minare il senso di sicurezza.

Come proteggersi

Non possiamo controllare ciò che scorre sugli schermi, ma possiamo gestirne l’impatto. Fare pause dai social, disattivare l’autoplay, limitare il tempo dedicato alle notizie e scegliere fonti affidabili e non sensazionalistiche aiuta a ridurre l’esposizione.

Parlare con persone di fiducia o con professionisti, praticare mindfulness e attività fisica, o semplicemente staccarsi per qualche ora dagli aggiornamenti, sono piccoli gesti che aiutano a riequilibrare mente e corpo.

Anche evitare di discutere continuamente degli stessi eventi traumatici può essere utile: condividere troppo, a volte, significa riviverli ancora.