Il truffatore di Tinder e il fascino oscuro del romanticismo

Non è solo un documentario, ma un invito alla riflessione di cause e conseguenze con tanto di inizio e di una fine che lascia l'amaro in bocca

Foto di Sabina Petrazzuolo

Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

L’amore non si fa più, ma si cerca tra i meandri del web e si consuma tra speranze e illusioni, tra notti di passioni e videochiamate. E poi si cerca ancora, in circolo, inseguendo la voglia di provarlo, di afferrarlo di farlo nostro, ma nascondendosi dietro di questa dopo l’ennesimo epilogo da dimenticare. La possibilità di provarci davvero, invece, lascia il tempo che trova. Così abbiamo smesso da tempo di parlarci e di guardarci negli occhi, di lasciarci corteggiare in strada, di farci incuriosire per paura e insicurezze. Perché poi c’è il web e in quello, protetti dallo schermo dei nostri device, è più facile parlare di noi, di chi siamo e di non siamo, di chi vorremmo essere.

Così le dating app, negli ultimi anni, hanno sostituito definitivamente quegli incontri casuali che avvenivano nei pub locali, in palestra o in strada. In fondo è tutto così facile e immediato, veloce. Ed è questo quello vogliamo, dedicare all’amore e alle relazioni solo una parte del nostro tempo, per risparmiarlo. Basta un match per misurare almeno la prima compatibilità fisica, due chiacchiere per confermare quella caratteriale e via con gli appuntamenti.

È più facile, è vero, è quelle coppie che si sono formate a seguito dei primi incontri confermano che non sempre è impossibile trovare l’amore. Ci sono stata anche io, su quelle dating app, un po’ per curiosità e un po’ per solitudine, ma anche per la voglia di mettermi in gioco attraverso uno strumento inedito e sconosciuto, lo stesso che si trasformava ogni volta in appuntamenti da dimenticare o in persone interessanti da provare e conoscere. E come me, tante altre. Probabilmente le stesse che sono diventate le vittime inconsapevole di Simon Leviev, il truffatore di Tinder.

Simon, al secolo Shimon Yehuda Hayut, è un ragazzo israeliano che ha costruito una delle più grandi truffe affettive proprio sfruttando il potere di Tinder, una delle dating app più popolari degli ultimi anni. È su di lui, e sui suoi inganni, che il documentario di Netflix, TheTinder Swindler, si snoda, diventando in pochissimo tempo, dalla sua uscita il 2 febbraio del 2022, uno dei titoli più visti nella top ten della piattaforma di film e serie in streaming.

Tanti i suoi nomi, altrettante le vittime. Tantissimi i soldi ottenuti grazie alle sue bugie, una cifra che ammonta a circa 10 milioni di dollari. Una truffa ben costruita che, oltre all’amaro in bocca, apre tutta una serie di riflessioni sull’amore romantico e perfetto ai tempi dei social network e delle dating app.

Di truffe affettive ne abbiamo già parlato e non smetteremo certo di farlo adesso. Ma una premessa è doverosa per capire meglio il fenomeno, perché non basta dire “Hey, guarda che quello ti prende in giro” per aprire gli occhi a qualcuno che è finito in quella trappola, perché caderci non è simbolo di ingenuità. Perché le radici del fenomeno non riguardano solo, come banalmente possiamo pensare, il disperato bisogno d’amore o la solitudine. Perché anche se queste non ci appartengono non diventiamo forti e immuni dalle truffe. Non immuni dai Simon Leviev.

E Simon, probabilmente lo sapeva, aveva capito che le truffe si basano su convinzioni profonde e legate agli status e alla fiducia, al mondo reale e a quello del web, e ha costruito la sua identità spacciandosi per il figlio del “re dei diamanti”, l’imprenditore israeliano che non è mai esistito. Così ecco che un semplice match su Tinder con lui si è trasformato in una nuova possibilità, non solo quella di un nuovo amore, ma l’opportunità di vivere una vita fatta di lusso e certezze, di un’etichetta sociale di tutto rispetto. E con un uomo così al proprio fianco, il lieto fine si sa, è quasi scontato.

Come lo è quando si vive una vita a 5 stelle tra hotel di lusso, appartamenti e jet privati. Un uomo di tutto rispetto, posizionato sulla scala più alta della società che non può certamente mentire, soprattutto se alle donne fa promesse d’amore. Così il documentario di Felicity Morris approdato su Netflix parla della truffa sentimentale ai danni di numerose vittime e non solo di quella. Parla delle vittime e poi sviscera in maniera sensibile tutto ciò che è il web, tutto ciò che è la rete e di come questa abbia cambiato in maniera definitiva le nostre relazioni e gli approcci e forse la stessa percezione che abbiamo dell’amore.

A Simon il merito e la colpa di aver intuito e sfrutto il facile accesso alle menzogne che il web ci offre. Menzogne che forse tutte abbiamo raccontato, anche se piccole e innocue, quando abbiamo utilizzato per il nostro profilo quella foto sensibilmente modificata e filtrata per risultare più attraenti, o quando abbiamo messo in luce peculiarità caratteriali che in realtà non ci appartenevano. Lui lo ha fatto con il denaro, e il lusso, con una nuova identità che non era la sua.

E tutte le sue vittime, per lo più donne scandinave, avevano bisogno di credergli per tutta una serie di motivi che non possiamo certo giudicare. E lo hanno fatto. E non solo perché il denaro e il lusso attirano e prospettano una vita migliore che rispecchia tutte le aspettative delle principesse che sognano di diventare regine, ma perché la ricchezza è il simbolo di qualcosa a cui noi diamo ancora tanto valore. Perché un uomo ricco ricopre un ruolo importante, se non fondamentale, nella società con tanto di valori etici e culturali che gli abbiamo cucito addosso prima ancora di conoscerlo.

Così ecco che quando l’uomo ricco e potente aveva bisogno di soldi le vittime si sono prodigate ad aiutarlo, perché credere che lui stesse mentendo non era contemplato. Perché Simon Leviev, con le sue ricchezze effimere, è una persona degna di fiducia in un mondo in cui l’apparire è più importante dell’essere.

Felicity Morris però non si limita solo a raccontare Simon e le sue truffe. Il suo documentario non è solo il racconto di un fatto di cronaca che mette alla luce il lato più oscuro del nuovo romanticismo no, la regista parla anche delle donne, delle vittime, di queste nuove relazioni fatte soprattutto di messaggi, video e foto scambiate in rete. Di dating app e bonifici online. Di una trappola avvenuta nel mondo del web che ha avuto la trasposizione nella realtà come dimostrano i titoli di giornali, questo documentario, e la rabbia e la delusione delle vittime, perché quelle sì che sono reali.

Il truffatore di Netflix è un invito a ripensare a tutto ciò che viviamo in maniera tangibile e non, perché che questa sia una trappola è facile intuirlo adesso che siamo solo spettatori, ma a tutti è successo di sentirci protetti dalla rete. Perché siamo abituati a scindere le due cose, a credere che il mondo reale è quello dove si consumano le nostre vincente, e invece questo documentario ci conferma che qui si svolge solo l’epilogo delle nostre scelte fatte altrove, sul web.

Cause e conseguenze con tanto di inizio e di una fine che lascia l’amaro in bocca, perché non c’è un risarcimento per le vittime di Simon, né in danni economici, né tantomeno sentimentali.