Motherhood penalty. Il peso di essere mamme lavoratrici

Il termine motherhood penalty, tradotto come pena di maternità, racconta tutti gli svantaggi e le penalizzazioni che subisce una mamma lavoratrice

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Quanto costa la maternità? Tanto, troppo. Non solo dal punto di vista economico e retributivo, ma anche sociale, emotivo e personale. Lo confermano i fatti, le esperienze e anche gli esperti che hanno coniato per questa situazione, che sembra non destinata a una risoluzione nel breve termine, il nome di motherhood penalty.

Il termine, che tradotto letteralmente vuol dire pena di maternità, è di per sé piuttosto esplicativo, e altro non fa che confermare che la maternità è “Un’azienda ad alto rischio, senza riconoscimento né ritorno“, per citare la scrittrice Karla Tenório.

Perché in effetti gli svantaggi di essere mamma sono tanti, e lo sono sicuramente dal punto di vista professionale dove le donne non solo non sono tutelate, ma non hanno alcun beneficio, né tantomeno un trattamento diverso rispetto a tutte le lavoratrici senza figli.

Cos’è la motherhood penalty

I sociologi utilizzano il termine motherhood penalty per indicare tutti quegli svantaggi di cui ancora poco spesso si parla e che riguardano tutte le mamme in carriera o più, semplicemente, chi non vuole rinunciare al lavoro dopo la gravidanza. Differenza di retribuzione, carichi di lavoro non adeguati a chi si occupa anche dei figli e zero benefici.

Una premessa è doverosa: la maternità non è e non può essere un problema, eppure è così che viene percepita da alcuni datori di lavoro e da tutte quelle aziende che vedono in una professionista mamma l’anello debole della catena. Perché poi c’è il congedo, e quindi una lunga assenza dal posto di lavoro, ci sono i bambini, che hanno bisogno di essere seguiti o che possono ammalarsi, e poi c’è il carico mentale, anche questo da non sottovalutare.

Al di là dei dubbi dei recruiter, che spesso si insinuano già in fase di selezione, c’è poi il punto di vista di una mamma, che è ancora più importante. In Italia sono molte le donne che si ritrovano, dopo aver partorito, a dover compiere delle decisioni piuttosto drastiche che, spesso, vanno proprio a discapito della carriera. Perché se non si occupano loro dei figli e della famiglia, poi, chi lo fa?

E anche quando si trova la giusta organizzazione, che nella maggior parte richiede l’impiego di tate, di doposcuola o dei nonni, la situazione è tutt’altro che incoraggiante. Il ritorno al lavoro, dopo il congedo obbligatorio, non è sempre facile. Non lo è sicuramente per chi ha determinati obiettivi professionali da raggiungere. Il reintegro non è facile neanche dal punto di vista mentale, dato che con la ripresa della routine lavorativa, le mamme devono anche trovare il modo di gestire un nuovo equilibrio familiare che si era formato durante i mesi di congedo.

Il congedo di maternità, tra l’altro, è uno dei punti focali del dibattito sulle motherhood penalty. Si tratta di un diritto indisponibile per la lavoratrice, e per quanto sia sacrosanto, questo costringe le donne ad allontanarsi dal lavoro per mesi. Un periodo che non solo penalizza la carriera, ma che spaventa i datori di lavoro. Diverso è, invece, il caso degli uomini che hanno diritto a soli dieci giorni di congedo dei quali possono usufruire anche in maniera non continuativa.

A una situazione che si tiene in piedi su un equilibrio piuttosto labile, si aggiungono anche i pregiudizi. Sono in molti a pensare, infatti, che dopo la maternità le mamme lavoratrici non abbiano le stesse energie e la stessa forza in termini di produttività. Una credenza, questa, che può generare anche discriminazioni da parte del datore di lavoro che potrebbe preferire donne single, o uomini, per compiti più importanti e anche più retributivi.

La retribuzione, infatti, è al centro del dibattito sulla motherhood penalty. A quanto pare, infatti, il gender pay gap sembra aumentare a dismisura quando si prendono in analisi anche gli stipendi delle mamme lavoratrici. Secondo la ricerca “Benedizione o maledizione? Politiche lavoro-famiglia e crescita salariale materna nel tempo” di Jennifer Glass, docente di Sociologia presso l’Università del Texas ad Austin, la retribuzione oraria delle mamme lavoratrici diminuisce del 5%, per figlio se confrontata con quella delle donne non madri.

Tutti svantaggi oggettivi che passano per l’assunzione, per la retribuzione, e per l’esperienza quotidiana, personale e professionale, e che non intaccano minimamente la carriera degli uomini, anche se padri.

Svantaggi e prospettive

In una società che, nonostante i passi avanti, considera ancora le donne come sesso debole, la maternità non fa che rafforzare questa idea costringendo quindi le mamme lavoratrici a vivere in uno svantaggio perenne e continuo. Nei confronti delle altre professioniste e anche nei confronti degli uomini.

Sfavori, questi, che passano per la retribuzione sì, ma anche per la fatica che nel caso delle donne è raddoppiata. Secondo il rapporto del Word Forum Economy “Gender Gap Report 2022”, le donne hanno un carico di lavoro non retribuito triplicato rispetto a quello degli uomini. E con questo si fa riferimento a tutte quelle attività che prevedono la cura dei figli e della casa, la preparazione dei pasti e delle pulizie, e anche l’assistenza agli anziani e, più in generale, ai membri della famiglia che ne necessitano.

Si tratta di una situazione che tutti conosciamo, ma che non riguarda solo l’Italia. Secondo uno studio pubblicato nel 2019 da The Economist, infatti, anche i Paesi con una maggiore attenzione alle politiche familiari non riescono a porre un freno alle motherhood penalty. Le differenze, e gli svantaggi, si fanno evidenti quando si parla di differenze di retribuzione.

Germania, Svezia e Danimarca, che spesso vengono presi come esempi virtuosi per il supporto dato alle famiglie e alle mamme, registrano comunque un divario importante sui guadagni. Una vera e propria perdita di reddito al femminile che penalizza tutte coloro che decidono di diventare mamme. Il motivo? Spesso le madri decidono di svolgere lavori part-time o impieghi meno pagati dei precedenti che consentano loro di gestire al meglio gli impegni familiari e le esigenze dei figli. A queste, poi, si aggiungono tutti quei genitori che smettono di lavorare quando i bimbi sono molto piccoli.

Risolvere questi problemi, che si fanno sempre più evidenti e che non fanno altro che aumentare il gender gap, non è semplice. Non lo è per tanti motivi. Eppure è doveroso provare a cambiare le cose, partendo dal fornire più supporto alle mamme, e alle famiglie. Con un’offerta adeguata di asili nidi pubblici, per esempio, con dei bonus o, ancora, con l’allungamento del periodo di paternità che può consentire di stabilire dei nuovi equilibri familiari che non siano solo a carico delle mamme.