Difficoltà di linguaggio nei bambini: cosa fare e come intervenire

Il tuo bambino "parla male"? Ecco come riconoscere i sintomi della difficoltà di linguaggio e quando intervenire, rivolgendosi ad uno specialista

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Giorgia Marini

Parenting Specialist

Ex avvocato. Blogger, con la laurea sul campo in Problemi di Mammitudine. Da 6 anni scrivo di gravidanza, maternità ed infanzia, sul mio blog “Stato di Grazia a Chi?” e su altre testate online. Racconto la maternità con brio, garbo ed empatia.

Noi genitori contemporanei siamo estremamente presenti ed attenti ad ogni singola evoluzione dei nostri bambini. Dal primo vagito alla laurea, scandagliamo ogni singolo progresso, spesso, paragonandolo a quello dei coetanei. Questa nostra eccessiva apprensione, più che semplice attenzione, a volte ha risvolti negativi (paragoni, stimoli eccessivi, pressione) altre, invece, ci permette di capire, in tempo utile, eventuali e reali criticità dei nostri figli, aiutandoci ad intervenire il prima possibile.

Chi ha più di un figlio, poi, inciampa nel solito vizio di paragonare i fratelli e le sorelle. Abilità, capacità, peculiarità degli uni e degli altri vengono passate al setaccio, analizzate al microscopio, per capire perché, eventualmente, i figli non raggiungono i traguardi nei medesimi tempi.

Nel bene e nel male, pur dovendo imparare ad essere meno apprensivi, questi paragoni, in alcuni casi, ci portano ad accorgerci quando qualcosa davvero non va e ad intervenire tempestivamente.

Parlando del linguaggio, ad esempio, non è raro confrontare i nostri figli ai coetanei, per capire se siano in linea. Questo nostro comportamento, inevitabile ed assai comune, può essere innocuo, e ci può aiutare a capire quando siamo di fronte ad un’ eventuale difficoltà del linguaggio.

Claudia Curcelli, Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva, ci spiega quando possiamo parlare di difficoltà e di ritardo nel linguaggio, come e quando intervenire e quali siano i sintomi che devono attirare la nostra attenzione.

Il linguaggio nei bambini: entro quale età si comincia a parlare

Prima ancora di parlare, di esprimersi verbalmente, il bambino comunica in altri modi. I primi sorrisi, la postura, il contatto, i diversi tipi di pianto, i vocalizzi, sono tutte forme di comunicazione, attraverso le quali il bambino si esprime. L’adulto, rispondendo a questi segnali, funge da rinforzo, in modo che il bambino ne tragga un significato affettivo e ne dia un significato comunicativo preciso.

Successivamente, verso la fine del primo anno di vita, il piccolo comunica principalmente attraverso gesti definiti deittici (es. mostrare, dare, indicare) ed in seguito, dopo il primo anno, compaiono i gesti definiti referenziali (classico esempio il ciao ciao con la manina). Per un periodo, i gesti e le parole tenderanno ad essere utilizzati in contemporanea, per poi lasciare spazio principalmente alla sola comunicazione di tipo verbale”.

Quando il bambino comincia a pronunciare delle vere e proprie parole?

“Per quanto riguarda il linguaggio vero e proprio, anche in questo caso, il bambino sin da subito emette suoni, anche se non di tipo comunicativo. Intorno ai 3 mesi, comincia  ad ascoltare e ad “interagire” con l’adulto che, spontaneamente, tende a riprodurre giochini basati sul suono e sull’interazione e così pian piano il bambino assimila, imita, impara.

Intorno ai 6-7 mesi, comincia la fase della lallazione in cui il bambino ripete sillabe (es. pa-pa e, successivamente, sillabe diversificate pa-ma ), per poi arrivare alle prime parole. Intorno ai 18-24 mesi, comincia a mettere insieme due o più parole formando le prime frasi (es. cane nanna, ecco, mamma etc).

Tra i 2 e i 3 anni, le capacità linguistiche del bambino si sviluppano notevolmente: le parole sono ben comprensibili, il vocabolario si espande e le frasi sono ormai abbastanza strutturate”.

Ritardo e difficoltà nel linguaggio

I genitori lo sanno: quando i coetanei di nostro figlio sono delle macchinette di logorrea (c’è chi giustamente si lamenta di non poter mai mettere a riposo le orecchie) a differenza sua, le paranoie diventano elementi inseparabili delle nostre giornate. Ma non sempre c’è da preoccuparsi.

Secondo la dottoressa Claudia Curcelli, “Pur essendoci delle tappe nello sviluppo del linguaggio, c’è comunque una certa variabilità individuale. In generale, possiamo parlare di ritardo di linguaggio quando i bambini, a 24 mesi, hanno un vocabolario di meno di 50 parole e a 30 mesi non riescono ancora a formare frasi. Generalmente, questi bambini vengono definiti parlatori tardivi. L’evoluzione può essere di due tipi: recupero spontaneo o consolidamento di un vero e proprio disturbo di linguaggio.

Parliamo di disturbo di linguaggio dopo i 3 anni. Secondo l’ICD 10 (la classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati), il disturbo del linguaggio è una condizione in cui l’acquisizione delle normali abilità linguistiche è disturbata fin dai primi stadi dello sviluppo. In sostanza, le abilità linguistiche (corretta produzione fonetica delle parole, numero di parole possedute dal bambino, produzione di frasi, comprensione verbale) non sono in linea con lo sviluppo tipico per la fascia d’età del bambino, e quando questo non è dovuto ad una patologia primaria (paralisi cerebrali, ipoacusia, sindromi genetiche, ecc.)”.

mamma e bambino, come intervenire se il bambino parla male

Sintomi delle difficoltà

Come dicevamo all’inizio, ci sono casi nei quali un attento e sereno paragone fra coetanei, può esserci di aiuto per comprendere criticità più o meno importanti.

“Generalmente, il genitore si accorge che c’è qualcosa che non va, osservando il bambino interagire con i suoi pari. Spesso sono le maestre ad accorgersene o a confermare le preoccupazioni del genitore. In generale, bisogna prestare attenzione a diversi fattori quali: assenza della lallazione, scarsa comunicazione gestuale, lessico ridotto (meno di 50 parole intorno ai 24 mesi), difficoltà a formulare frasi a 30 mesi, ed infine, difficoltà di comprensione verbale”.

Come e quando intervenire

Quando ci troviamo di fronte ad un dubbio così importante, il primo e corretto approccio è quello di interfacciarsi con la pediatra od il pediatra di fiducia, per comprendere se le nostre preoccupazioni siano fondate o meno. Eventualmente, sarà lei o lui a richiedere l’intervento di una professionista, come la dottoressa Curcelli, il cui compito comincia proprio in quel momento.

“Il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva o il logopedista, attraverso test, giochi ed interviste ai genitori, stilerà un profilo funzionale con  il livello di sviluppo del linguaggio raggiunto dal bambino, i deficit e in quali aree intervenire. La diagnosi vera e propria viene fatta generalmente dal neuropsichiatra infantile o da un foniatra.

Un intervento precoce è sempre la soluzione migliore. Aspettare può solo causare l’aggravarsi della situazione, dato che il bambino automatizzerà determinati schemi linguistici errati o non avrà un’ espansione adeguata del vocabolario. Tutto questo, a lungo termine, comporta anche una difficoltà negli apprendimenti scolatici”.

Balbuzie: sintomi e cause

Tra i disturbi e le difficoltà più frequenti, nei bambini più piccoli, ci sono certamente le balbuzie e le difficoltà a pronunciare alcune consonanti. In realtà, si tratta di fasi molto comuni che i bambini attraversano durante la loro sperimentazione, per cui allarmarsi non è necessario. L’Importante è sempre osservarli, senza far pesare loro le  piccole-grandi difficoltà. Solo successivamente, e se i disturbi dovessero prolungarsi, sarà necessario intervenire.

“Per balbuzie si intende un disturbo della fluenza, con esordio in infanzia. Ciò implica difficoltà nel ritmo e nella fluidità del discorso: ad esempio,  ripetizione o prolungamenti di suoni e sillabe e blocchi durante l’eloquio. Solo questo però non basta per parlare di balbuzie, infatti queste disfluenze possono essere anche fisiologiche. Per parlare di balbuzie deve esserci anche un impatto a livello sociale (ad esempio nella socializzazione o sui risultati scolastici) e la disfluenza deve essere prolungata nel tempo.

Questo fenomeno interessa l’1% della popolazione, con un’incidenza maggiore nel sesso maschile. L’età media di esordio è intorno ai 33 mesi. Le cause non sono ancora conosciute. Ci sono diverse teorie e attualmente, con le neuro immagini, gli studi stanno facendo enormi progressi. Ad ora si sa che sicuramente c’è una certa familiarità per la balbuzie: i figli di genitori balbuzienti hanno maggiori probabilità di esserlo a loro volta. Un’altra componente è quella ambientale ed emotiva. Se si notano disfluenze durante l’eloquio del bambino, bisogna monitorare l’andamento per almeno tre mesi, vedere se la situazione migliora o peggiora o rimane stabile. Importante è capire se a livello emotivo e psicologico il bambino ne risente. Durante questi mesi, o subito dopo,  è consigliato contattare lo specialista che, con un’attenta anamnesi, valuterà se e come  procedere”.

Sviluppo fonetico: la “R” e la “S”

Quanti bambini, ed anche quanti adulti, hanno difficoltà nella fonetica! La fatica maggiore, come ci ricorda la Curcelli, la si ha con le consonati S ed R.

“Anche lo sviluppo fonetico ha le sue tappe indicative. Intorno ai 5 anni, l’inventario fonetico è completo e il bambino pronuncia correttamente tutte le parole. Può capitare che alcuni suoni siano alterati e spesso incidano anche sull’intelligibilità dell’eloquio, In tal caso, è bene rivolgersi al professionista, per intraprendere un percorso riabilitativo che può variare nei modi e nei tempi in base alle difficoltà presentate dal bambino. Le difficoltà che i genitori notano prima, e più spesso, riguardano la  pronuncia della S o della R, ma tutti i fonemi possono essere interessati. Per quanto riguarda la R, bisogna ricordare che esso è uno degli ultimi fonemi che il bambino impara a pronunciare, quindi non è il caso di allarmarsi se, a 3-4 anni, il piccolo non lo fa correttamente.

Se si hanno dubbi, è sempre bene rivolgersi al pediatra o al terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva o logopedista. Al contrario di quanto si pensa, è possibile lavorare sugli aspetti fonemici anche in età precoce, non è necessario arrivare a 5-6 anni per intraprendere un percorso riabilitativo. All’ingresso in prima elementare, il bambino deve aver acquisito tutti i fonemi e pronunciarli correttamente”.

Come aiutare i bambini nella socialità

Ciò che preoccupa il genitore, che si trovi di fronte ad un bambino con una criticità del linguaggio, è anche il rapporto con i suoi amici, i compagni di scuola, gli insegnati ed in genere i suoi coetanei. La paura di noi genitori è quella di trovare un ambiente ostile che faccia pesare ai nostri figli le proprie difficoltà.

La collaborazione scuola – famiglia è importantissima, e la fiducia reciproca tra genitori e insegnanti è il punto di partenza per poter supportare al meglio il bambino. Importante è anche che il terapista abbia contatti con la scuola, per poter dare indicazioni specifiche e personalizzate. In generale, possiamo dire che alla scuola dell’infanzia sono utili tutte le attività che pongono attenzione all’ascolto, alla narrazione, ai giochi di “metafonologia”, etc. Tutto questo, presentato in forma ludica e divertente, metterà il bambino a suo agio, Anche il lavoro in piccoli gruppi può essere utile per favorire la socializzazione”.

Ci sono piccoli accorgimenti che, noi genitori, possiamo mettere in atto, per aiutare i nostri bambini?

“Ecco alcuni consigli: in caso di disfluenza, lasciare al bambino il tempo di portare a termine ciò che vuol dire, non interromperlo e non anticiparlo. Mai far pesare al bambino le sue difficoltà, non chiedere di ripetere in modo corretto una parola o far finta di non aver capito. Aiutare anche i compagni ad adottare questo tipo di comportamenti, e, più di tutto, favorire sempre la socializzazione tra i pari, considerando che spesso un bambino con difficoltà di linguaggio tende a essere timido ed introverso.

Se il disturbo di linguaggio dovesse persistere, anche durante la scuola primaria, è importante ricordare che esso può portare ad un disturbo dell’apprendimento (dislessia, ecc.), quindi, senza far pesare al bambino le proprie difficoltà, monitorarlo ed intervenire è necessario, per il suo bene”.