Tutto chiede salvezza: la vera storia di Daniele. E cosa l’ha salvato

Daniele Mencarelli, autore del libro "Tutto chiede salvezza" e sceneggiatore dell'omonima serie Netflix ci racconta la sua storia, che fine hanno fatto quei 5 pazzi compagni di vita e dove ha trovato salvezza

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Sara Gambero

Giornalista esperta di Spettacolo e Lifestyle

Una laurea in Lettere Moderne con indirizzo Storia del Cinema. Appassionata di libri, film e del mare, ha fatto in modo che il lavoro coincidesse con le sue passioni. Scrive da vent’anni di televisione, celebrities, costume e trend. Sempre con un occhio critico e l'altro divertito.

Tutto mi chiede salvezza. Per i vivi e i morti, salvezza. Salvezza per Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro e Madonnina. Per i pazzi, di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia

Tutto chiede salvezza è una delle serie più viste delle ultime settimane su Netflix. Tratta da uno dei libri più belli e commoventi degli ultimi anni, opera autobiografico di uno scrittore che è anche sceneggiatore della serie: Daniele Mencarelli. L’abbiamo contattato per farci raccontare qualcosa di più su Mario, Gianluca, Madonnina, Giorgio e Alessandro:  i “5 pazzi che per lui sono stati la cosa più simile all’amicizia mai trovata nella vita, compagni di TSO e fratelli offerti dall’esistenza, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta”.

Che effetto ti ha fatto vedere rappresentata sullo schermo la tua vita, dei volti nuovi addosso ai tuoi personaggi?
Mi ha aiutato l’aspetto professionale: negli ultimi 20 anni mi sono occupato di serie tv per la Rai e sono abituato al passaggio dalla carta al video, anche se qui era molto più delicato e sentito perché riguardava la mia vita. E volti reali che ho vissuto in prima persona. Posso dire che sono felice e soddisfatto. Ho sempre detto, prima ancora del rilascio di Netflix,  senza pudore né scaramanzia, che la serie era bellissima.

Hai partecipato alla scelta degli attori? Avendo letto il libro, li ho trovati tutti perfetti
Francesco Bruni, il regista, ha sempre condiviso con me le sue scelte ed io me ne sono innamorato da subito. Soprattutto Federico Cesari, il protagonista, che ha un volto straordinariamente espressivo e semplice al tempo stesso. Sono tutti incredibilmente perfetti. Francesco poi ha scelto come location una vera stanza di un ospedale pubblico italiano, in maniera fedele al libro. Spesso i registi tendono ad abbellire i luoghi, ed è un errore madornale.

Dove è stata girata la serie?
Ad Anzio, nell’ospedale di lungo degenza dell’esercito italiano, oggi in parte dismesso.

Scrivi nel libro, e Daniele dice nella serie: “Quei pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato”. Cosa avevano in più dei tuoi amici di sempre, dei compagni di tante serate?
Ti ringrazio per questa domanda, perché per me è molto importante spiegarlo. Alla base c’è un dato antropologico oggettivo: nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza quello che comanda, che domina, è il branco. Il branco sociale, governato da regole e canoni, dettati dai leader. E il branco sociale, oggi come ieri, anzi oggi più di ieri, è guidato da narrazioni che orientano il pensiero: come ci si deve vestire, cosa è giusto fare e cosa è sbagliato, ciò che va sentito e ciò che non va sentito. In ogni epoca i giovani diventano individui recitanti. Vivono delle recite in cui si fa fatica a trovare il coraggio per esprimere la parte più profonda e naturale di sé stessi. Nel branco non si parla di vita, di morte, di senso dell’esistenza. Io ero un ragazzo di 20 anni che si sballava con gli amici, che recitava nel “teatro sociale del branco”, che praticava il divertimento anche dove non c’era, che viveva certe esagerazioni che a volte nemmeno mi stavano bene, certe cattiverie che magari non condividevo ma facevo (certe prese in giro, mi piangeva il cuore, ma le facevo: ero davvero cattivo) perché non avevo il coraggio di dire “No, basta”. A quell’età è difficile trovare il coraggio. Io che ero divorato dai temi dell’esistenza fin dall’infanzia, con gli amici, con il branco, non ne parlavo. Non avevo il coraggio di dir loro “Ok, ci facciamo le canne, ci sballiamo, ma io sono anche altro”. Ecco, in quella stanza, con quei ragazzi con cui ho condiviso il TSO, invece, ho parlato ed è venuto fuori quell’altro me.

Come ci sei riuscito?
Perché in quei sette giorni, grazie a loro, che non mi giudicavano, che non erano il branco,  sono riuscito a parlare naturalmente di cose che avevo sempre pensato fossero tabù: di vita, di morte, di sessualità. Giovanni Testori diceva: “Gli ospedali sono rimasti gli unici centri culturali di tutto l’Occidente”.  Semplicemente perché l’uomo messo alle strette di fronte al suo destino non può non guardare alla sua vera natura, fatta di vita, morte, malattia. E sono stati loro, quei 5 pazzi, a permettermi tutto questo.

Loro (Mario, Gianluca, Alessandro, Giorgio, madonnina) sono tutti reali?
Sì, c’è una parte romanzata, ma è andato tutto realmente così. Madonnina ha davvero dato fuoco ai miei capelli… Pensa che quando ho guardato per la prima volta la seconda puntata – ero su un Frecciarossa per Milano- , e ho visto Lorenzo Renzi interpretare Giorgio che racconta della madre mi sono messo a piangere come un bambino. Di quella esperienza i ricordi che mi sono rimasti più nella pelle sono stati proprio Giorgio e il padre di Alessandro che raccontava a tutti continuamente la storia del figlio. La cosa incredibile è che si dava la colpa: “Io a mio figlio un tramezzo da solo non glielo avevo mai fatto fare”, ripeteva di continuo. Come a dire: è colpa mia perché gli ho dato una responsabilità troppo grande. Una colpa che chiunque, dal di fuori, non gli avrebbe dato. In realtà quel muro era stato solo la scintilla, perché quando uno ha in corpo la belva della psicosi può uscire in qualunque momento, per qualunque motivo . Il padre si attribuiva una colpa che non era sua, quel ragazzo la malattia ce l’aveva già in corpo.

Non hai mai più rivisto nessuno di loro?
Aristotele diceva: “Bisogna raccontare il verosimile perché il vero tende ad essere inverosimile”. Ecco, tu pensa: l’unico che ho rivisto è stato proprio Alessandro, quello che stava peggio di tutti. Per 20 anni ho fatto vita da pendolare tra la provincia sud di Roma e il centro e passando per Castel Gandolfo, una mattina a una fermata ho visto questo ragazzo obeso, tipico di chi fa uso massiccio di psicofarmaci, con una massa di capelli informe, la barba lunga, ma gli occhi…quegli occhi erano i suoi! L’avevo già incontrato un altro paio di volte prima della scrittura dei romanzi e non avevo mai avuto il coraggio di fermarmi. Alessandro era fisicamente molto cambiato, da magro e catatonico, perennemente accudito dal padre, era diventato obeso, trascurato.

Perché non ti sei fermato?
L’unica  cosa che mi ha impedito di fermarmi sono stati i suoi occhi. Perché il suo sguardo, una volta tornato ad essere ambulante, era comunque lo stesso di quando stava catatonico davanti a me. Gli occhi tipici di chi vive la malattia mentale ad un livello grave. La malattia mentale è un mare magnum immenso, che va dai disturbi lievi alla schizofrenia, di chi non distingue più tra mondo reale e mondo interiore. Uomini che vedono quello che tu non vedi. Alessandro era uno di questi.

Daniele, il protagonista, va  in crisi di fronte al dolore, all’incapacità di trovarne spiegazione e senso:  “Se è tutto senza senso allora preferisco morire”. Oggi hai trovato il senso?
Mi  definisco tuttora “un cacciatore di senso”. La mia grande fortuna, anzi, salvezza, è stata quella di avere avuto, dall’adolescenza in poi, una grande alleata che è stata la poesia insieme alla letteratura. La poesia mi ha messo in contatto con tutta una serie di autori e artisti, e prima ancora persone, che avevano la smania della ricerca di senso. Per me approfondire il rapporto con questa lingua, la loro, è stato fondamentale per trovare sostegno. L’aver scoperto che la ricerca di senso non è da malati.
Quello che è stato sempre naturale per l’uomo, cioè porsi delle domande sul significato della proprio esistenza, perché veniamo al mondo, perché si muore, perché si ama, grazie alla poesia ho scoperto che era molto più normale di quello che pensassi. Poi nessuno nega che questo tipo di domande quando non ben gestite, controllate e dominate, se prendono loro il dominio diventano ossessive, pervasive e possono scaturire in malattia.

Quando succede?
Quando si oltrepassa il confine: stare prima di quel confine ponendosi quelle domande è da esseri umani. Sta nella nostra natura. E la poesia mi ha permesso di capire che non ero malato ma che esisteva questo limite. Cercare un senso dentro l’esperienza umana è quello che l’uomo ha sempre fatto. E qui si lega il concetto di solitudine: c’è una solitudine fondamentale necessaria all’essere umano, quello spazio che diamo a quello che viviamo per poterlo approfondire, analizzare, uno spazio di indagine interiore fondamentale. Il problema è che noi uomini occidentali abbiamo, grazie al benessere, dilatato enormemente il tempo a nostra disposizione e quella solitudine, quella parte che avevamo a disposizione per approfondire quello che ci capitava,  rischia di diventare qualcosa d’altro, un tempo che ci si ritorce contro. Come un circolo vizioso in cui prevale una parte più negativa che abbiamo dentro. Come se questa solitudine diventasse un dar voce alla nostra parte più oscura, quella che fa capo alla paura. In questo senso la solitudine può diventare pericolosa, quando diventa un tempo non più costruttivo ma distruttivo, perché lascia spazio dentro di noi a quei sentimenti negativi, come la paura. L’importante è far sì che il tempo che destiniamo a noi stessi sia costruttivo, e sottrarci quando quel tempo, troppo dilatato, diventa distruttivo.

Nella serie è molto amplificata la storia d’amore con Nina: scelta tua o esigenze di fiction?
Ci sono state diverse cause, tutte da me condivise. Intanto la serie si volge quasi tutta dentro una stanza, e Nina in qualche modo è quel “drive sentimentale” che dà aria al racconto. Aggiungo due grandi cambiamenti nel passaggio dal racconto al film:  il romanzo è del 1994 mentre la serie è ambientata ai giorni nostri, con gli inevitabili cambiamenti storici: intanto le quote rosa sono aumentate e lavori un tempo riservati solo agli uomini nelle serie sono svolti da donne. Poi la nostra società è diventata multietnica, infatti nella fiction c’è Alessia (l’infermiera di colore, ndr).  Infine Nina, quell’elemento sentimentale senza il quale la serie sarebbe stata un film tv di nicchia o da cinema d’essai, che ha alleggerito una materia che altrimenti sarebbe stata eccessivamente pesante e claustrofobica. E che soprattutto ha offerto un grande assist: la possibilità di introdurre tutte quelle nuove tematiche nate con il passaggio dall’era analogica all’era digitale. In primis i social.

Dopo l’aggressione di Giorgio, scrivi: “Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere. Una volta, una sola volta. Invece non lo hanno fatto. Perché per loro non eravamo degni di essere ascoltati. Perché i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani. La pensi ancora così?
Mi verrebbe da dire che oggi è ancora peggio. I mie romanzi hanno una chiave di lettura moderna, sebbene siano ambientati negli anni ’90. Tutto chiede salvezza parla della malattia mentale, che è un argomento molto attuale. Oggi la situazione è rimasta inalterata se non addirittura peggiorata. Tutta la lezione di Basaglia dell’ascolto in psichiatria, materia che non deve prescindere dalle altre lingue quali la poesia e la filosofia, oggi è passata in secondo piano rispetto a 30 anni fa. Io sono stato salvato da una lingua data per morta, cioè la poesia. Ma cosa può opporre l’uomo contemporaneo alla eccessiva medicalizzazione nella terapia delle malattie mentali? I primi a rendersene conto sono gli psichiatri, i centri di salute mentale, le comunità di recupero che capiscono che la scienza e la psichiatria, di cui  nessuno omette l’ importanza, hanno bisogno di quelle lingue che raccontano l’uomo nella sua fragilità naturale. Se io non conosco quelle lingue e sento dirmi da ogni parte che “devo essere forte, vincente, che devo meritare, che non c’è spazio per la fragilità e la paura”, e magari sono uno che di fronte allo specchio pensa alla morte, cosa succede?  Per questo faccio dei corsi nelle scuole dove porto poesia e parola come sostengo fondamentale di sopravvivenza. Leggere una poesia del ‘900 ai ragazzi e leggergliela in un certo modo, con passione, facendola sentire viva, diventa una compagnia fondamentale. Per me i poeti del ‘900, da adolescente qual ero, sono stati dei compagni di viaggio fondamentali che mi hanno fatto sentire meno solo.

Dimmene tre su tutti
Camillo Sbarbaro, Umberto Saba e Dario Bellezza. Penso a “Il pensiero della morte che infine aiuta a vivere” (Umberto Saba, ndr), “La morte si sconta vivendo” (Ungaretti, ndr). Tutta la poesia del ‘900 è un lungo racconto dell’uomo che parla della propria fragilità. Non voglio dire che la poesia sia la cura del disturbo psichiatrico, ci mancherebbe, ma aiuta. Non possiamo pensare che l’uomo non abbia inquietudini, sarebbe disumano, questo. Ma dobbiamo capire, e far capire, che una parte della nostra inquietudine è normale, naturale, non è malattia.

Tu leggi negli occhi dei ragazzi di oggi quella inquietudine?
Ti dico la verità: Io non vorrei mai tornare giovane, mi ritengo un sopravvissuto della gioventù. Perché le fasi della vita in cui le domande sull’esistenza sono ricorrenti e insistenti sono proprio l’infanzia e l’adolescenza. Penso al bambino che chiede alla mamma: “Tu morirai?” “Perché c’è la morte?”. O all’adolescente che sperimenta il senso della perdita, che comincia a porsi tante domande. Noi nati negli anni ’70, oggi genitori, di fronte a un figlio che sviluppa le sue inquietudini, quali basi abbiamo per rispondere? L’automatismo che si è creato è: ”questo ragazzo ha dei segni di cedimento, lo porto da un medico”. E il medico che fa? Medicalizza. Non dico che questa parte non occorra, ma ho visto ragazzi che leggendo, mantenendo vive queste lingue, risultavano più maturi di fronte ai grandi temi dell’esistenza. Non voglio dire che non soffrissero, soffrire è naturale, vivere è anche soffrire, è fare i conti con la nostra fragilità interiore.

(attenzione: domanda spoiler)

Nel libro Mario sopravvive, nella serie muore Perché?
Ho condiviso la scelta di far morire Mario perché nel momento in cui sono uscito dalla stanza del TSO, ho saluto quel luogo e ho sentito Mario come una figura ormai scomparsa. Come se con quella caduta dalla finestra lui fosse uscito dalla mia vita. La sua morte idealizzata è la morte di un eroe tragico. Mario salva senza sapersi salvare. Possiede cultura, conoscenza, ma ciò che ha e che mette a disposizione degli altri non è utile alla sua, di salvezza. Che è tipico dei veri salvatori: l’eroe che salva spesso salva sacrificando la sua vita. La sua morte era giusta, perché c‘era stato un congedo da Mario. Quando mi giro e saluto i miei 5 compagni di viaggio, nel romanzo, è un saluto definitivo. Lo faccio dire pure da Gianluca: “Non mi dire che ci rivedremo”. L’alchimia, la chimica che si crea dentro certe situazioni, e che era nata dentro quella stanza, non era riproducibile fuori, dove tornano ad essere dominanti le differenze sociali, economiche, culturali. Io non ho mai avuto il coraggio di fermarmi e salutare Alessandro, perché è come se avessi considerato quella settimana un pezzo della mia vita finito. Fondamentale, salvifico, ma concluso.