“Ringrazio l’inverno”, quando la malattia guarisce i rapporti familiari

Nel romanzo di Flavia Todisco l'Alzheimer diventa non solo dolore ma opportunità di crescita personale e familiare. Un romanzo che è anche storia di rinascita ed emancipazione femminile

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Sara Gambero

Giornalista esperta di Spettacolo e Lifestyle

Una laurea in Lettere Moderne con indirizzo Storia del Cinema. Appassionata di libri, film e del mare, ha fatto in modo che il lavoro coincidesse con le sue passioni. Scrive da vent’anni di televisione, celebrities, costume e trend. Sempre con un occhio critico e l'altro divertito.

Pubblicato: 20 Maggio 2025 10:57

Flavia Todisco ha scritto un libro coraggioso, in cui un tema doloroso, quello della malattia,  l’Alzheimer, viene raccontato come opportunità di crescita personale e familiare e non tanto come una patologia da demonizzare. Ma non solo. Ringrazio l’inverno è anche una storia di emancipazione femminile, condotta in solitaria, negli anni in cui le donne scendevano in piazza e lottavano per i loro diritti e quelli delle generazioni successive affinché ci si liberasse da una società patriarcale e dispotica. La protagonista Ersilia, ormai anziana e malata, affida i suoi ricordi e le sue battaglie a un diario dedicato alla nipote Cecilia per raccontare la sua vita, i suoi errori e dolori e la sua rinascita.

Partiamo dal titolo: Ringrazio l’inverno. Perché lo si ringrazia?
L’Inverno, con la “i” maiuscola, per la protagonista Ersilia, in tutto il romanzo, rappresenta innanzitutto uno stato, una condizione emotivo-psicologica di sofferenza e assoluta prostrazione che la porta a sfiorare l’annichilimento e la stessa fine. Ersilia è persuasa che questa condizione le “competa” fin dalla nascita, dato che è nata a febbraio, nel cuore dell’inverno, e ha vissuto tre profonde stagioni di sofferenza e crisi esistenziale, che l’hanno portata a lasciarsi andare tanto da disperare di potersi riprendere. In realtà, giunta alla propria ultima stagione esistenziale, dopo avere a lungo riflettuto su sé stessa e su quanto vissuto, anche attraverso le pagine del diario che scrive per la nipote Cecilia, si rende conto che l’Inverno è stata la stagione che, nei momenti più bui e duri, le ha permesso di sopravvivere, recuperare energie e prepararsi a rinascere, attraverso il naturale processo di metamorfosi che accompagna ogni ciclo naturale, non ultimo quello dell’esistenza umana. Nel momento in cui Ersilia comprende questo non può che ringraziare ciò che l’ha mantenuta in vita, consentendole di rinnovarsi e, addirittura, rigenerarsi. Questo rappresenta anche il messaggio che vuole trasmettere alla nipote prima di congedarsi da lei e dalla vita: proprio quello che sembra distruggerci — il buio esistenziale, la sofferenza, le crisi —, in realtà, ci salvaguarda, talvolta salvandoci letteralmente la vita, in quanto ci consente di trasformarci, superando gli ostacoli e le difficoltà, anche le più estreme, e, soprattutto, permettendoci di diventare migliori, più consapevoli, maturi e, in ultima istanza, liberi.

Quanto c’è di autobiografico nel libro e nel raccontare la malattia?
È inevitabile che nello scrivere si attinga alla propria esperienza, sia quella diretta, vissuta in prima persona, sia quella esperita vivendo accanto agli altri, osservandoli e osservando i differenti casi della vita. Così è stato anche nella stesura di Ringrazio l’inverno, anche se tutto è stato filtrato attraverso la scrittura e, dunque, rimodulato attraverso le caratteristiche proprie della finzione narrativa e del romanzo.

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Nel tuo libro la malattia si ribalta, viene vista sotto un’altra prospettiva: non solo portatrice di dolore e sofferenza ma anche capace di riavvicinare, di guarire i rapporti Perché questa scelta,  deriva da una esperienza vissuta?
Le malattie, come gran parte delle crisi e dei momenti difficili che ciascuno affronta individualmente oppure collettivamente, in ambito familiare, sopraggiungono inaspettate e,  a maggior ragione, scompaginano tutto: i legami, il quotidiano e le routine, le prospettive future. All’inizio, creano scompiglio, sofferenza e disagio, poi, però, possono produrre cambiamenti significativi, migliorare e trasformare radicalmente gli individui e i rapporti tra di loro, proprio perché attivano le energie migliori di quanti ne sono coinvolti, i quali si concentrano su ciò che è davvero essenziale e importante, mettendosi costruttivamente in discussione. Paradossalmente, credo che la loro funzione sia proprio questa, permettere ai sistemi familiari di sanarsi. So che può apparire forte e azzardato quanto dico, ma l’ho vissuto in prima persona e mi è successo di osservarlo accadere anche a altri e altre.

Nel tuo libro la malattia ristabilisce le gerarchie famigliari  A volte però, succede il contrario: la malattia distrugge i legami. Nella realtà cosa accade più spesso?
C’è la domanda di riserva? Scherzo. È davvero molto difficile rispondere a questa domanda, anche se credo che la maggior parte delle volte prevalga la ricomposizione del contesto famigliare, rinvigorito e sanato proprio in ragione della tempesta emotivo—affettiva che ha vissuto. Noi esseri umani siamo proprio così: attingiamo alle nostre risorse migliori, se e quando qualcosa ci minaccia e rischia di compromettere i nostri legami e affetti più stretti.

Quando Ersilia parla della scoperta della malattia della madre, la sua paura più grande è la perdita di dialogo con quella mamma che pure era stata così dura con lei. Eppure riescono a trovare un loro canale di comunicazione nella malattia. È un messaggio di speranza?
Quanto Ersilia scrive in merito all’Alzheimer, dal momento in cui viene diagnosticato a sua madre Clotilde, è ispirato alla mia esperienza diretta. La scelta di inserire questa tematica e alcuni episodi relativi a essa nel romanzo è stata dettata da due esigenze: la prima è quella di onorare la memoria di mia madre e gli splendidi ultimi anni che abbiamo condiviso, nonostante e a prescindere dalla malattia, e forse grazie a essa; l’altra è rappresentata dall’esigenza di offrire una testimonianza di quanto insieme abbiamo vissuto e sperimentato concretamente, vale a dire una nuova forma di comunicazione, fatta di corpi, gesti, sguardi e un nostro nuovo codice linguistico, che ci ha permesso di comunicare e parlare anche quando eravamo fisicamente lontane e, necessariamente, ci sentivamo al telefono. Come ho già avuto modo di dire, in quanto scrivo e affermo non c’è alcuna intenzione né pretesa di rappresentare la malattia, e nello specifico l’Alzheimer, nella sua totalità e complessità. Ogni vissuto al riguardo è unico e soggettivo. Io mi sono limitata e mi limito a quanto ho esperito in prima persona.

Nel caso di Clotilde la malattia è addirittura liberatoria. Che cosa significa?
Questo è quanto è successo a mia madre che, dopo il turbamento e i timori che le suscitò la diagnosi, rassicurata e confortata dall’affetto dei familiari più stretti, ritrovò la leggerezza e l’entusiasmo propri della sua indole e si liberò dei limiti che le convenzioni sociali e, probabilmente, il passare del tempo, insieme ai differenti casi della vita, le avevano imposto, oscurandole l’animo e lo sguardo. Recuperò il sorriso, tornò a fare battute di spirito, divenne ancora più attenta e affettuosa nei confronti degli altri in generale, non solo dei propri affetti. È stato incredibile per me e la mia famiglia scoprirla e ritrovarla così radiosa, nonostante le difficoltà e i momenti di crisi che, in ogni caso, viveva. È la mia, la nostra esperienza. Come dicevo poco fa, riprendere, pur romanzati, tali vissuti è un modo per onorare la sua memoria e quegli straordinari momenti, offrendone testimonianza a chi leggerà il romanzo. Naturalmente, affermo tutto questo nel rispetto della sensibilità e dei differenti vissuti altrui.

Alla fine Ersilia dice “Non posso che essere grata all’Inverno, che non ha rappresentato solo sofferenza, ma mi ha portata alla luce”. Questo è il senso del tuo titolo?
Giunta alla fine della propria esistenza, Ersilia, che ha sempre creduto di portare in sé, come un’onta o, addirittura, una predestinazione crudele e infelice della sorte, l’Inverno, inteso come condizione psico-emotiva di ripiegamento interiore, sofferenza e prostrazione, scopre, anche attraverso la stesura del diario per la nipote, che in realtà ciò che credeva l’avrebbe distrutta e la votasse all’infelicità e alla sofferenza estreme, in realtà l’ha preservata e nutrita, consentendole di trasformarsi e rigenerarsi, tanto da divenire una donna serena e pacificata con sé stessa e il proprio passato, completamente consapevole di sé e del proprio percorso esistenziale. E questo è anche il lascito che vuole trasmettere alla nipote, attraverso la stesura del diario. Questo è anche il senso dei versi di Ungaretti citati in esergo.

Anche la morte nel tuo libro non è cosi nera: “Com’è fondante la morte, Cecilia. Rinsalda, anziché distruggere. La fine, vista da così vicino, è una festa inondata di luce e armonia. Penso che sia un inizio. Anche se a noi fa molta paura”. È anche il tuo pensiero?
È il pensiero di entrambe: Ersilia lo sperimenta in prima persona e lo racconta nel suo diario; io stessa ho avuto la fortuna di viverlo e, inevitabilmente, l’ho trasferito nel romanzo che, se vogliamo, può anche essere interpretato come una lunga riflessione, e divagazione, su quel limes — la fine e la questione dell’oltre — che tutti lambiamo fin dalla nostra nascita e origine, anche se non ci pensiamo spesso, soprattutto negli anni della giovinezza, ma solo in età avanzata, anche in ragione del fatto che la nostra società, sostanzialmente, rimuove la questione, coltivando illusione di poter negare e annullare gli effetti fisici e psichici — non sempre e non solo negativi, in realtà — che l’avanzare del tempo lascia su di noi. Lo affermo anche nel finale del romanzo, che ora non riprendo, per lasciare ai lettori e alle lettrici, che lo vorranno, il piacere di scoprirlo.

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