Roberta Siragusa, l’omicidio e la banalità del male

Roberta Siragusa uccisa a 17 anni. Nella notte svolta degli inquirenti, fermato il fidanzato diciannovenne Pietro Morreale per omicidio volontario e occultamento di cadavere

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Roberta Siragusa aveva diciassette anni, un sorriso luminoso e degli occhi grandi, profondi e misteriosi, accentuati da quell’eye-liner che sembra non mancare mai in tutte le foto che la ritraggono. Una donna ancora bambina, innamorata della vita e del suo ragazzo Pietro Morreale di diciannove anni. Sabato sera vanno insieme a una festa, nonostante la Sicilia sia stata messa in zona rossa, nonostante le raccomandazioni dei genitori, e Roberta promette loro che rientrerà entro l’una. Non la vedranno mai più, la ragazza non tornerà a casa, perché è stata uccisa, e il suo corpo parzialmente bruciato, abbandonato in una discarica, come si fa con gli stracci vecchi, come si fa con la spazzatura, e lasciato lì, al buio e al freddo di una notte che cambierà per sempre l’esistenza di questa famiglia.

Dalla mattina di domenica le notizie si rincorrono sui vari siti giornalistici, i titoli pressoché tutti uguali, “Ragazza di 17 anni uccisa, il fidanzato confessa: sono stato io” dal Corriere dell’Umbria, “Ragazza morta a Caccamo, il fidanzato confessa l’omicidio” da Il Sicilia, insomma si parla di confessione del ragazzo, che, scortato dal padre e dal suo avvocato, accompagna i carabinieri sul luogo dove è stato abbandonato il corpo senza vita della diciassettenne, ma passano le ore e cominciano a trapelare informazioni contrastanti con quanto scritto in un primo momento. Pietro Morreale non confessa l’omicidio, e anzi in serata il legale rincara la dose, “se il mio assistito avesse rilasciato una dichiarazione ne saprei qualcosa”. E allora diciamo le cose come stanno, facciamo una ricostruzione degli eventi, basandosi sulle prove dei fatti, e non sul sentito dire, perché la verità è sotto gli occhi di tutti, solo che fino a quando il colpevole non viene trovato con la pistola fumante esiste la presunzione di innocenza, ma le domande che mi sono fatta io, sono le domande che si fanno tutti quelli che stanno seguendo questo caso.

Come faceva Pietro a conoscere l’ubicazione del cadavere? Perché si è presentato in caserma affiancato da un legale? Perché durante tutto l’interrogatorio si è avvalso della facoltà di non rispondere? e soprattutto perché, sapendo che Roberta era morta, ai genitori di lei, che lo chiamano alle sei del mattino non trovandola in casa, risponde di averla accompagnata a casa all’una e di essere andato via? Il racconto degli amici parla di una discussione avvenuta tra i due davanti a tutti, sfociata in litigio, una ragazza in particolare si lascia andare e fa una confidenza agli inquirenti, quest’estate Pietro l’aveva già picchiata, le aveva fatto un occhio nero. Poi la svolta nel corso della notte, il diciannovenne viene fermato, per la procura si tratta di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Secondo gli inquirenti non ci sono dubbi. È stato lui ad uccidere la fidanzatina di diciassette anni.

E allora sono andata in rete ed ho cercato le foto di questo “presunto” assassino, trovandomi il viso pulito di un ragazzino, con ancora i brufoli dell’adolescenza, e il ciuffo sugli occhi, e poi sono andata a guardare le foto di Roberta, di questa bellissima donna bambina, e ho immaginato l’orrore provato negli ultimi istanti della sua vita, chissà se lo avrà capito che stava per morire, chissà se avrà capito che “non ci sarebbe stato un ritorno”. E poi ho immaginato i genitori che la cercano nel letto e non la trovano, e telefonano a quello che verrà poi fermato con l’accusa di omicidio della figlia, e tragedia nella tragedia andare in caserma per denunciarne la scomparsa dove poco dopo arriverà Pietro per balbettare agli inquirenti che “Roberta è morta, vi accompagno dove si trova il suo corpo”, quell’orrore temuto che si tramuta in per sempre.

Fonte: ANSA
Pietro e Roberta, foto ANSA

E mi sono chiesta com’è che ci si trasformi in assassini, com’è che ventiquattrore prima ci si ami, e qualche ora dopo si arrivi a uccidere, cercando di cancellare anche il ricordo della vittima, dandole fuoco, cosicché le fiamme non abbiano nessun rispetto di quel corpo, inerme e senza vita. Guardo quegli occhi appena maggiorenni e mi domando come sia possibile che quelli stessi occhi abbiamo guardato quelli di Roberta che stava per morire non provando pietà, non provando compassione, non provando empatia. E poi guardo gli occhi della vittima, e penso allo strazio di quei genitori che non li incroceranno più, penso al fatto che non ci saranno più prime volte, non esisterà la notte prima degli esami, la maturità, non ci sarà la scelta dell’università, la scelta dell’abito da sposa, non ci sarà un padre che accompagna sua figlia all’altare, non ci saranno nipotini da crescere ed abbracciare, non ci sarà più niente di tutto questo.

Perché quando un ragazzo si trasforma in assassino due sono le famiglie distrutte, quella che lo ha generato, e quella alla quale la vita è stata strappata, con la differenza che la prima con il tempo e la prigione potrà, forse, cambiare la mente dell’omicida, alla seconda non resteranno che i ricordi, e dovrà farseli bastare, perché le viene tolta per sempre la possibilità di crearne di nuovi. È un mai più che equivale a una condanna a vita, quella del dolore, quella della perdita, quella della sconfitta che ha il sapore amaro e bastardo della banalità del male.