Il sacrosanto diritto di fare visita ai malati in ospedale.

Simone Benvenuti aveva 23 anni ed è morto da solo, senza che la mamma potesse salutarlo un'ultima volta. Riportiamo l'umanità in ospedale.

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Sono passati dieci giorni da quando mio marito è stato operato d’urgenza per un’emorragia interna, talmente grave che il giorno successivo ogni medico, infermiere o oss con cui io abbia potuto parlare, ha rimarcato come in quella sala operatoria, oltre all’equipe, fosse stato presente più di un angelo custode.  E vista la professione del mio amore, che è appunto quella dell’allenatore, mi sono voluta immaginare una squadra, il team Pagana, impegnata a guidare quelle fantastiche e miracolose mani del chirurgo che lo hanno riportato da me. Sono stati i giorni della grande paura, quelli in cui ho aspettato ore davanti alla porta della rianimazione, in attesa di notizie, mentre il mio amore combatteva con tutto se stesso per rimanere con la sua famiglia, sono stati i momenti del terrore, quelli in cui non riuscivo nemmeno a prendere sonno terrorizzata come ero dal fatto che potesse suonare il cellulare, che fosse l’ospedale, ed io potessi non sentirlo.

Da quel giorno, il 24 gennaio, sono passate 216 ore, e, di queste, nessuna mi ha visto accanto a lui, non ho potuto toccare il suo viso, o baciare le sue labbra, non ho potuto accarezzare le sue mani, o tirargli su la coperta perché non sentisse meno freddo, e devo ringraziare con tutto il cuore il reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Dolo, che nei due giorni successivi all’intervento, mi ha permesso di vederlo attraverso un vetro per i venti minuti giornalieri, che mi ha tenuta informata due volte al giorno sulle sue condizioni. Ma sapete qual è la verità? Che nessuna telefonata, nessuna videochiamata potrà mai sopperire una visita in presenza, e sfido chiunque a negare il supporto psicogologico che quest’ultima possa dare sia al paziente, che al suo congiunto.

Mio marito ha contratto il Covid il giorno 3 gennaio, ma per lo stato italiano è risultato libero il giorno 22, data in cui gli è stato riattivato il green pass, e il giorno successivo l’ussl lo ha raggiunto telefonicamente per comunicargli che, nonostante la sua positività al tampone, fosse libero di uscire, in qualità di trivaccinato. Ed è stato uno dei primi, come soggetto fragile, a ricevere il booster nel mese di ottobre. Ebbene, nonostante questo, è stata proprio la sua positività a impedirgli di ricevere in ospedale la tac di urgenza che gli spettava. Lui si è sentito male dopo aver finito la dialisi, e la sua nefrologa constatata l’emergenza, ha contattato la radiologia che ha imposto per lui un trattamento da paziente Covid, facendolo passare dal pronto soccorso, e durante il quale sono state perse due ore, 120 minuti che solo per un caso fortuito e, grazie a varie incazzature affinché ricevesse i controlli vitali che gli spettavano, non si sono rivelate fatali per mio marito. Quello che è accaduto successivamente l’ho già ampiamente raccontato su queste pagine e sui miei social, e non sarò mai sufficientemente grata a chi ha salvato mio marito, ma ad oggi sono sette giorni, 168 ore che io non posso vederlo, perché considerato un paziente long covid e ricoverato in un reparto apposito, in cui le visite dei parenti sono vietate, ma in realtà, le visite sono state sospese anche in altri reparti per il riacutizzarsi della pandemia.

Eppure ci vorrebbe del buon senso anche in questo caso, faccio mie le parole del presidente dell’ordine dei medici di Firenze Piero Dattolo: «Le attuali indicazioni delle direzioni sanitarie dei vari ospedali sulle visite dei parenti in ospedale dicono che ogni primario può autorizzarle o meno, e questo in linea di principio non è sbagliato perché ogni reparto ha la sua storia e le sue caratteristiche. Ma servirebbero regole nazionali. Credo che la nuova norma da introdurre sia quella di autorizzare le visite a chi è vaccinato con tre dosi e, caso per caso, a chi non è vaccinato. Occorre mantenere alta l’attenzione per i contagi», ma ammette che «il vero problema è comunicare correttamente coi familiari dei pazienti ricoverati. Spesso non si comunica in modo professionale e su questo dobbiamo fare un mea culpa. Ma è già difficile comunicare di persona, figuriamoci per telefono». Già, perché se io mi sono comportata da brava cittadina, ho effettuato la terza dose del vaccino il giorno 30 dicembre, e il 4 gennaio ho contratto il covid dal quale sono guarita, perché non ho diritto di vedere mio marito? Perché mi viene negato il diritto alla cura della persona che amo? Sono passati due anni dall’inizio di questo incubo mondiale, e dobbiamo essere grati alla scienza per quello che di buono è riuscita a fare in questo doloroso e lungo percorso, perché se, ad oggi, possiamo ancora circolare liberamente lo dobbiamo a chi questo vaccino lo ha inventato, e a chi, consapevolmente e civilmente ha deciso di effettuarlo. Ma non può essere che in uno stato di diritto io abbia solo degli obblighi nei confronti di chi mi governa.

Sapete perché il presidente dell’ordine dei medici toscano ha rilasciato questa dichiarazione? Perché qualche giorno prima un ragazzo di 23 anni, Simone Benvenuti, è morto da solo, senza che la madre potesse vederlo o confortarlo nei suoi ultimi istanti di vita, nonostante avesse richiesto di poter entrare visto la grave situazione. Le è stato impedito di stare con suo figlio, e le è stato detto che poteva portare un focolaio. Alle 4 di notte l’hanno chiamata per avvisarla dell’avvenuto decesso, e a quel punto per vedere la salma vengono fatti entrare in tre, e allora, giustamente, la madre afferma: «Ma perché ci hanno fatto entrare in tre quando è morto e non ci hanno fatti entrare, neppure uno solo, quando era vivo? Almeno poteva avere un conforto dalla mamma». Pensate agli anziani che non sanno usare uno smartphone, che non sanno effettuare una videochiamata, devono stare alla disponibilità ed umanità degli infermieri o dei dottori, per essere aiutati anche a comporre un numero. Ma i pazienti non sono numeri, ed io capisco il volerli difendere da questo maledetto virus, ma il malato si cura anche con l’amore di chi ha condiviso la vita con lui, non perdiamo di vista l’umanità e l’empatia. Nessuno si merita di morire da solo. Ma nemmeno di restare isolato dal mondo in attesa di una faccia amica che venga a trovarlo. A volte una carezza aiuta più di una terapia, un sorriso più di una fisiologica, e un abbraccio può salvarti. Scegliere di chiudere i reparti alle visite dei familiari non è più una soluzione. È un calvario disumano.