Il discorso di Silvia Avallone sulle donne che tutte le mamme e le figlie dovrebbero leggere

"Non siamo fiori né gioielli. Non siamo cose da misurare o da esibire. Perché noi parliamo. Immaginiamo, studiamo, creiamo. Siamo vive. E non apparteniamo a nessuno"

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Possiamo essere principesse, se lo desideriamo. O anche streghe, un’alternativa decisamente più eccitante, come ha suggerito Silvia Avallone, perché “Le streghe sono potenti, sanno volare e trasformarsi. A differenza delle principesse, non invecchiano dentro una torre”. Possiamo essere chi vogliamo, questo è chiaro, a patto di ricordarci, sempre, che dobbiamo fare nostra la libertà e l’indipendenza. Perché non apparteniamo a nessuno, se non a noi stesse.

È questa l’essenza di quel discorso di Silvia Avallone, scrittrice e poetessa italiana, letto al Quirinale l’8 marzo del 2021, proprio in occasione della Giornata Internazionale della donna. Non che ci sia davvero bisogno di un giorno per ricordare la nostra forza e la nostra potenza agli altri, a quel mondo che ogni tanto sembra dimenticarlo.

E allora, quando lo fa, è nostro il compito di ricordargli che possiamo e dobbiamo essere chi vogliamo. Dobbiamo farlo insegnandolo alle nostre mamme, che non sempre sono state libere come lo siamo noi oggi, e alle nostre figlie, affinché un giorno possano diventare le donne che desiderano essere. E dobbiamo ricordarlo anche agli uomini, affinché imparino che non siamo nati dalla loro costola per essere sottomesse, per vivere nell’ombra o per camminare sempre un passo indietro.

Donne e indipendenza

Nel suo discorso al Quirinale, Silvia Avallone, parla proprio di questo. Di libertà e di coraggio, di indipendenza che lei stessa descrive come la “Stella polare del vocabolario“, di stereotipi e di pregiudizi da superare.

“Perché non apparteniamo a nessuno”, e anche se questo sembra scontato per molte di noi, dobbiamo sempre ricordarci che prima non lo era, e che in molte parti del mondo, neanche così lontane da noi, ancora oggi non lo è.

Per questo il discorso di Silvia Avallone ci piace e ci colpisce. Perché dovrebbe essere usato come invito e come monito, come una sorta di testamento che ogni mamma dovrebbe leggere alle propri4 figlie, e viceversa, e che noi oggi vi consegnamo.

Il discorso di Silvia Avallone

Ero sempre la prima a varcare l’ingresso della scuola, e ci soffrivo. La mattina presto, d’inverno, il buio era così fitto da sembrarmi insormontabile. L’atrio delle elementari era il solo rettangolo di luce nella strada. Io scendevo dall’auto di mia madre e salivo di corsa la gradinata. Poi mi sedevo, nel silenzio dell’aula vuota, e aspettavo gli altri bambini: quelli che avevano madri che non lavoravano. O forse sì, ma con orari diversi, più consoni a una famiglia. Dove avevo imparato a vergognarmi di una madre che lavora? Non avrei saputo dirlo.

Era scritto nell’aria, nei gesti, nei racconti che ascoltavo distrattamente ma da qualche parte, in me, andavano a sedimentarsi: le brave donne restano a casa, preparano torte, sorridono. E hanno molta pazienza.

Mia madre aveva pazienza, ma fino a un certo punto. Più che cucinare, amava leggere. Quando un giorno le rinfacciai di avere un lavoro, delle amiche, dei libri, anziché dedicarsi esclusivamente a me, lei mi chiese: “Sai qual è la parola più importante? La stella polare del vocabolario?”. Non dimenticherò mai la serietà con cui la pronunciò, come se dovesse scolpirmela nell’anima:”Indipendenza”.

Mi spiegò che se da grande non avessi avuto un lavoro, una passione, un progetto solo mio, avrei dovuto sempre dipendere da qualcuno. Non sarei mai stata libera di diventare me stessa.

Qualche tempo dopo, a scuola, di fronte a uno stuolo di bambini che negavano a me e alle mie compagne l’accesso al campo da calcio, brandii la parola indipendenza come fosse una spada e mi sentii potentissima. Avevo scoperto che nessuno poteva decidere al mio posto. Con le altre bambine, sfondai il muro di maschi e planai sul prato a braccia spalancate. Giocammo a pallone per l’intera ricreazione, tutti insieme. Fu l’inizio di un nuovo sguardo: l’orizzonte si era fatto più vasto.

Se mia madre aveva la voce, e la usava continuamente per discutere di politica, per insegnare, per arrabbiarsi, mia nonna invece no: aveva solo le mani. Seduta al di qua della finestra, con un gomitolo di filo in grembo e gli occhiali inforcati, riusciva a intrecciare l’uncinetto per ore, finché il sole non scendeva. Quando non stava in poltrona, era in cucina a impastare e spadellare. Non la si sentiva mai dire una parola in più delle solite, sempre cortesi. Se in casa si accendeva una discussione, lei con le mani invitava a non litigare. Cinque figli tirati su da sola, e lo stipendio del marito che non bastava a iscriverli tutti all’università: fu ovvio scegliere di far studiare solo i maschi. La geografia di mia nonna coincideva con il perimetro dei pavimenti. Quanto fossero grandi il mondo, la storia, lei non lo sapeva, perché ne era stata tagliata fuori.

Poi si ammalò. E a ottant’anni, finalmente, tirò fuori la voce. Diede un nome preciso a tutte le fatiche e le rinunce. “Studia” mi ordinò, “guai a te se non studi”. E io, ormai adolescente, compresi con ancora più chiarezza che a una società che mi chiedeva d’incarnare una muta, desiderabile e innocua bellezza, dovevo opporre i miei autentici desideri. E quante più parole possibile.

Ho conosciuto tante donne murate vive, le cui esistenze sono scivolate via in silenzio. E ne ho conosciute molte altre che si sono ribellate ricevendo in cambio disprezzo e diffidenza. Zitelle, poco di buono, egoiste che pensano solo alla carriera: definite sempre in relazione ad altri, come se di per sé non avessero valore. Ognuna di noi è, o è stata, prigioniera di una parola con le sbarre. Di uno stereotipo feroce. Di un invito a tacere, a farsi da parte, a sacrificare il proprio talento.

Ancora oggi non veniamo educate a sperimentare la nostra libertà, bensì a piacere.

A sorridere e dire grazie, a costringere la nostra complessità in una rigida semplificazione che ci pretende attraenti o materne. Ma mai disubbidienti, mai pericolose con le idee e la creatività. Siamo anzi incoraggiate a soffocarle in nome di una causa più alta: l’amore. Per la famiglia, per un uomo. Ma quanto disamore c’è dietro questa richiesta? Che gigantesco spreco di intelligenza. Quanta ingiustizia, e violenza.

Se chiedi a una persona di rinunciare alla propria voce, la stai spogliando di se stessa. È questo che accade ovunque, di continuo, ogni volta che si domanda a una donna di vestire in un certo modo, di rinunciare lei al lavoro, di occuparsi da sola dei figli, di dismettere una passione. È così che ho visto impallidire e assottigliarsi decine di donne, è così che le ho viste finire nel sangue quando hanno deciso di dichiarare la propria indipendenza. È così che ho visto sfiorire e regredire la società intera.

A qualunque età, latitudine, condizione sociale, i nostri corpi arrivano prima delle nostre voci. Il nostro aspetto giudicato prima che le nostre parole possano trovare ascolto.

Le donne vengono malpagate, discriminate, sfruttate, violentate e uccise, perché viene loro negato, alla radice, il diritto all’identità. A essere una persona: sostantivo femminile che abbatte le mura di qualsiasi definizione e spalanca la possibilità di espressione, la libertà di osare il proprio sogno.

Quando un giorno mia figlia ha dichiarato di voler diventare una principessa, le ho suggerito che la strega sarebbe stata un’alternativa ben più eccitante. “Ma sono cattive” ha risposto. “È quello che vogliono farti credere” – le ho spiegato – “Le streghe sono potenti, sanno volare e trasformarsi. A differenza delle principesse, non invecchiano dentro una torre”. “Ma sono brutte” ha ribattuto. E io mi sono ritrovata di fronte a questo macigno che ci passiamo di generazione in generazione, a questo imperativo di perfezione astratta e accessoria. “Noi non siamo fiori” – le ho risposto – “Né gioielli. Non siamo cose. Non dobbiamo essere misurate, esibite, usate e gettate quando appassiamo o ci scheggiamo. E sai perché?”.

Ero io, adesso, la madre che lavorava. Ho ricordato mia nonna, sfinita dalla malattia, accendersi con una forza straordinaria e dar fiato alle parole che aveva taciuto per una vita intera. “Perché noi parliamo. Immaginiamo, studiamo, creiamo. Siamo vive. E non apparteniamo a nessuno”.