Una, la colite ulcerosa, concentra i suoi effetti nell’ultima parte dell’intestino. L’altra si chiama malattia di Crohn, colpisce soprattutto le donne e può interessare l’intero apparato digerente, con interessamento dell’intestino stesso in tutte le sue componenti, dello stomaco e, addirittura dell’esofago.
Insieme le due malattie vengono definite con la sigla MICI (appunto malattie infiammatorie croniche intestinali), che vengono spesso definite con la sigla inglese IBD. In occasione del congresso Nazionale Ig-IBD si è fatto il punto sulla situazione della donna che affronta queste patologie, capaci di impattare lungo tutto il corso della vita sull’organismo femminile. Proprio sul gentil sesso, infatti, gli esperti pongono la loro attenzione per studiare trattamenti su misura, in grado di limitare l’impatto delle patologie sull’esistenza femminile. Possono infatti “pesare” dalla prima mestruazione alla gravidanza, fino alla menopausa.
Contraccezione e fertilità
“Le donne affette da colite ulcerosa o malattia di Crohn presentano problematiche specifiche legate al genere femminile – spiega Aurora Bortoli della Fondazione IBD Onlus. – Si possono manifestare, infatti, problemi psicologici legati alla percezione della propria immagine corporea, al rapporto con il partner, all’uso di contraccettivi orali, alla sfera riproduttiva, all’osteoporosi e inoltre alla comparsa di tumori femminili. Dato il picco di incidenza delle malattie in età giovanile, molte donne sono in età riproduttiva e concepiscono dopo la diagnosi di malattia”.
Prosegue l’esperta: “La contraccezione, la fertilità e la gravidanza sono dunque un argomento da affrontare precocemente per fornire una risposta a dubbi e preoccupazioni per non peggiorare la qualità di vita”.
Proprio sulla fertilità, peraltro, l’effetto della malattia può essere importante. O meglio: se la malattia è in remissione, nelle pazienti con colite ulcerosa la fertilità non è ridotta, mentre risulta lievemente in calo nelle pazienti affette da malattia di Crohn a causa dell’infiammazione a livello pelvico/tubarico.
“In entrambi i casi – sottolinea la Bortoli – la fertilità è compromessa nella fase attiva della malattia e dopo interventi chirurgici in sede addomino-pelvica, anche se negli ultimi anni l’utilizzo della laparoscopia ha ridotto notevolmente l’infertilità, migliorando la capacità riproduttiva. I farmaci assunti dalle donne per la malattia intestinale, invece, non incidono sulla fertilità. Nel caso di accertata infertilità le evidenze attuali non sono sufficienti per definire se le percentuali di successo della fecondazione in vitro nelle donne con patologia siano simili o ridotte rispetto alle percentuali di successo nella popolazione generale, sebbene le percentuali di successo sembrano essere inferiori nelle donne con malattia di Crohn, in particolare quelle sottoposte a trattamento chirurgico”.
Una gravidanza su misura e poi, via libera all’allattamento
Secondo gli esperti è fondamentale iniziare una gravidanza in periodo di stabile remissione della malattia (preferibilmente da 6 mesi) per ridurre il rischio di esito sfavorevole. Secondo la Bortoli: “L’importanza della attività di malattia, al concepimento o durante la gestazione è dovuta al fatto che essa può influenzare negativamente l’esito della gravidanza, aumentando la probabilità di aborto spontaneo, parto pre-termine (<37 settimane) e basso peso alla nascita (<2500 grammi)”.
Continua l’esperta: “Al contrario, la malattia in remissione al concepimento ha un minimo o nullo effetto sul decorso della gravidanza ed il suo esito. Nelle donne con malattia silente al concepimento, la probabilità di riacutizzazione della malattia durante la gestazione è sovrapponibile a quella delle donne con patologie non in gravidanza. È segnalata però una maggiore recidiva della malattia in pazienti affette da colite ulcerosa nei primi due trimestri di gravidanza e nel puerperio. La recidiva non ha, in genere, un decorso più severo. Se, invece, la malattia è attiva al concepimento, solo il 30 per cento delle pazienti tornerà in remissione durante la gravidanza, probabilmente per una resistenza alla terapia. Ne consegue che, nel periodo della gestazione, un adeguato trattamento delle MICI debba essere continuato per mantenere la malattia in remissione e, in caso di recidiva della malattia, esso debba essere variato o potenziato. L’assunzione della terapia non preclude l’allattamento del neonato per la maggior parte dei farmaci assunti. Nel momento in cui si pianifica o inizia una gravidanza è importante rivalutare, da parte del Gastroenterologo che ha in cura la paziente, la attività di malattia e il trattamento in corso per sospendere eventuali farmaci controindicati e impostare o confermare una adeguata terapia”.
Un ultimo aspetto importante: l’allattamento al seno non è associato con un aumentato rischio di esacerbazione della malattia. Il rischio dei farmaci in gravidanza non è uguale al rischio durante l’allattamento: mentre piccole quantità di farmaci possono spesso essere rilevate nel latte materno, ciò non esercita necessariamente alcun effetto negativo sul bambino. La maggior parte delle madri può continuare ad allattare e assumere il farmaco senza rischi per il bambino e interrompere l’allattamento è spesso una decisione sbagliata.
Menopausa, attenzione all’osteoporosi
Non è stato dimostrato un effetto negativo delle MICI sulla menopausa, né un effetto negativo della menopausa sul decorso delle MICI. L’età di insorgenza della menopausa nelle donne che soffrono di malattie infiammatorie intestinali è sovrapponibile a quello della popolazione generale.
Le donne affette da MICI hanno invece un rischio superiore di presentare osteoporosi rispetto alla popolazione generale. È quindi raccomandato limitare l’assunzione di cortisonici, assumere una dieta ricca di calcio e vitamina D, svolgere un’attività fisica regolare, sospendere il fumo e limitare l’introito di bevande alcoliche.