Malattia X, cosa dobbiamo aspettarci se e (quando) arriverà

Si chiama malattia X perché non si sa nulla, né quando verrà né l'agente patogeno che la causerà: perché dobbiamo prepararci

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Pubblicato: 22 Marzo 2024 11:09

Si parlava da tempo, qualche anno fa, dell’eventualità che comparisse una nuova pandemia. Poi è arrivata Covid-19. Ed allora? Allora ci siamo resi conto che nell’eterna, quotidiana lotta tra uomini, virus, microrganismi e miceti ci sono momenti e fasi nei quali potenziali patogeni mai conosciuti prima appaiono all’orizzonte. Così, ora, si parla di una possibile nuova minaccia infettiva globale. L’hanno chiamata malattia X, perché non si sa nulla. Né quando verrà, né tanto meno quale sarà il patogeno che la causerà.

Di certo c’è solo che, come ha ricordato in un’intervista a Il Resto del Carlino la virologia Ilaria Capua, ora alla John Hopkins University di Bologna dobbiamo prepararci. E occorre che tutti i sistemi sanitari si organizzino. Nella logica di One Health che può ridurre i rischi e soprattutto controllare al meglio eventuali infezioni che dall’animale possono “umanizzarsi”, fino a diventare in grado di trasmettersi facilmente tra gli esseri umani, come accaduto per il virus sars-CoV-2. Che, ovviamente, non è stato il primo virus a provocare una pandemia.

Un sistema generale

Ilaria Capua, nella sua intervista, parla chiaramente di un “sistema” che collega l’uomo con gli animali, l’acqua, le piante. Siamo parte di un mondo in che occorre guardare in termini di “One Health”, considerando la salute umana insieme a quella degli animali e dell’ambiente. Ma bisogna che questo concetto diventi concreto e che se ne approprino sia le persone sia le istituzioni. Perché la salute umana, la salute animale e quella dell’ecosistema sono interconnesse e  per tutelare la salute dell’uomo sia fondamentale assicurarsi che in buona salute sia anche l’ambiente che ci circonda.

Si tratta quindi di una sfida continua, con la certezza che si tratta di una guerra che non  vincerà mai nessuno. Ci saranno tante battaglie, qualche volta vincerà la scienza qualche volta avranno la meglio i virus ed i batteri. Di certo c’è che sarà sempre più difficile parlare di malattie debellate, perché in qualche parte del pianeta, magari nel mezzo di una foresta impenetrabile, l’uomo potrà essere contagiato da agenti che non ha mai conosciuto. E quindi bisognerà studiarli, trovare le armi efficaci per vincerli e poi ricominciare.

Perché si teme una nuova malattia X

Come riporta il sito Dottore ma è vero che?, Covid non può essere considerata con certezza l’ultima delle potenziali malattie X, intendendo con questo termini quadri patologici mai conosciuti prima. Lo ha recentemente ricordato il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus segnalando come sussistano cambiamenti climatici, spostamenti di merci e persone, deforestazione e altro, ovvero fattori di rischio in molte parti del mondo, soprattutto nei Paesi a medio e basso reddito dove è più facile che si verifichino contatti tra animali selvatici ed esseri umani, anche se il prossimo spillover, a dire il vero, potrebbe accadere ovunque.

Insomma, dobbiamo pensare “quando” potrebbe arrivare una nuova pandemia. Le pandemie insomma costituiscono le pietre miliari dello sviluppo umano. Sono originate dalla comparsa di un virus “nuovo” (virus pandemico). Perché si verifichi questa condizione occorre che innanzitutto il virus sia antigenicamente nuovo, cioè che la popolazione mondiale presenti nei suoi confronti una immunità scarsa o nulla. Inoltre occorre che sia accertata la capacità del virus di replicarsi nell’uomo e provocare la malattia. Infine il virus deve avere la capacità di trasmettersi in modo efficiente da uomo a uomo. Quest’ultima caratteristica è fondamentale.

Come può emergere una nuova malattia X?

Il mondo è cambiato negli ultimi decenni. E soprattutto sono aumentati gli abitanti del pianeta e la loro capacità di spostarsi, così come avviene per le merci, con parti del pianeta stesso che vengono “tolte” alla natura (ad esempio con l’abbattimento di intere foreste) e quindi potenzialmente in grado di diventare sede di contatti tra animali potenzialmente vettori di microrganismi e virus con l’essere umano. Così aumentano le infezioni, che possono legarsi al passaggio specie di un agente infettivo da un ospite animale (per lo più mammiferi o uccelli) a un essere umano. È per questo che si parla di spillover.

Perché fanno paura le zoonosi

Non pensate che il cambiamento ambientale non si riverberi anche nei paesi industrializzati. E di molte malattie, purtroppo, non sappiamo abbastanza. Basta pensare in questo senso al caso del West Nile Virus, responsabile di una sindrome denominata appunto febbre del Nilo, caratterizzata da febbre, cefalea, malessere generale, dolori muscolari, perdita dell’appetito. In circa la metà dei casi compare un eritema maculopapulare e circa l’1% degli infettati può sviluppare meningite e/o encefalite anche gravi.

Negli USA, poi, si parla di Monkey-pox, patologia causata dall’analogo virus. Questa patologia è comparsa per la prima volta nel mondo occidentale, ed è un’infezione delle scimmie che può attaccare anche i roditori, come scoiattoli e topi. L’epicentro dell’infezione è però lontano, in alcune aree dell’Africa dove il primo caso umano è stato identificato nel 1970.

Sono solo esempi di come i virus possano passare dagli animali all’uomo, perché cambiano e sono capaci di superare la barriera di specie. Proprio il salto di specie, conseguenza naturale dell’aumento dei contatti tra esseri umani, sarebbe all’origine di vere e proprie “trasformazioni”. Lo dice la storia. Gli abitanti del nuovo continente, che non avevano animali domestici ad eccezione dei cani e non “conoscevano” le infezioni sviluppatesi in Europa, furono letteralmente decimati dai nuovi virus del vecchio continente. E le epidemie portate dai primi esploratori, come il vaiolo, il morbillo e la difterite, furono fatali alle popolazioni locali, come gli Inca e gli Aztechi del Messico e del Perù. Tanto che su quasi il novanta per cento degli abitanti dell’America centro-settentrionale morì nel primo secolo dopo le invasioni, in gran parte per le “nuove” malattie infettive trasmesse da animali.

Perché si temono i virus

Da sempre l’uomo può divenire la sede di un processo di replicazione virale. Questo fenomeno è comune a piante ed animali, ed ogni essere umano può essere vittima di infezione da parte di svariati virus, capaci di determinare malattie di gravità diversa.

I virus sono costituiti da informazioni genetiche (rispettivamente di acido desossiribonuclleico, DNA, o ribonucleico, RNA), racchiuse in un guscio proteico più o meno complesso. Questi microrganismi hanno la capacità di penetrare nelle cellule dei soggetti infettati: in esse il patrimonio genetico virale riesce ad indirizzare il patrimonio genetico dell’ ospite verso la produzione di costituenti virali e non più di proprie componenti cellulari. Così si verifica un’infezione e fino a quando il corpo non riprende il pieno possesso della situazione, si possono manifestare sintomi di entità variabile.

A differenza dei batteri, che hanno un sistema di replicazione autonomo rispetto alle cellule dell’organismo in cui si riproducono, i virus riescono quindi a “sfruttare” l’ospite. E per questo hanno facilità a svilupparsi. Con questi “nemici” gli antibiotici non servono.

La storia delle pandemie influenzali

Prima dell’inizio di questo secolo, sostanzialmente il ritmo delle pandemie era segnato dalle forme più serie di patologie influenzali, legate a ceppi virali “ignoti” al sistema immunitario e quindi potenzialmente in grado di attaccare qualsiasi persona. Il motivo? L’intera popolazione risulta senza difese. Partiamo dai dati storici, per ripercorrere questa vicenda. Nell’antica Roma si pensava che la comparsa delle epidemie influenzali fosse legata ad una sfavorevole congiunzione delle stelle.

Tuttavia la storia dell’influenza comincia già qualche secolo prima di Cristo. Il primo “reperto” storico della malattia viene fatto risalire alla famosa peste di Atene, del 430 avanti Cristo. L’elevata mortalità riscontrata durante la presunta pestilenza sarebbe infatti legata, secondo le teorie più recenti, a un’epidemia influenzale gravissima complicata da sovrainfezioni batteriche risultate poi mortali.

La prima vera pandemia in Europa si è registrata ufficialmente nel 1580. Da allora sono state descritte altre 31 pandemie. Le più gravi si sono verificate nel 1743, nel 1889-1890, nel 1918-19 (la cosiddetta spagnola, provocata dal virus A sottotipo H1N1), nel 1957 (è la volta dell’asiatica causata dal virus AH2N2) e nel 1968 la Hong-Kong, provocata dal virus AH3N2, ultima pandemia prima di quella della fine della prima decade di questo secolo. Secondo i dati epidemiologici, alla spagnola va il triste record della mortalità, con oltre 20 milioni di decessi. Meno pesanti, sotto il profilo della mortalità, sono state invece l’asiatica e l’Hong-Kong, che pure hanno interessato decine di milioni di persone in tutto il mondo.

La storia della Sars, una “malattia X, d’altri tempi

La Sars è stata per diversi mesi un vero e proprio incubo per le persone nei cinque continenti. Si è  trattato di un fenomeno patologico particolare, che rappresenta però un modello epidemiologico perfetto per capire le moderne malattie infettive, innanzitutto perché il virus è partito da un animale, poi perché l’infezione si è rivelata legatissima alla globalizzazione e alla facilità degli spostamenti.  Tutto è nato in un villaggio isolato nel Guandong, in Cina, con il primo caso che non è mai stato nemmeno individuato con certezza. Poi una persona contagiata è passata in un albergo di Hong-Kong, che è divenuto l’epicentro dell’infezione. È a quel punto che tutto è cambiato.

Rispetto al Guandong questa è infatti un’area in cui si incontrano persone che si spostano moltissimo, disperdendosi nel pianeta. Da lì quindi l’infezione si è diffusa, diventando globale.  L’acronimo inglese sta per Severe Acute Respiratory Syndrome, cioè sindrome respiratoria acuta severa.

L’infezione è causata da un coronavirus, che fa parte di una “famiglia” di virus, che danno malattie soprattutto negli animali. La trasmissione del virus è avvenuta per via respiratoria, attraverso la saliva o le secrezioni. Nell’uomo queste infezioni da coronavirus sono responsabili di almeno un caso su dieci di raffreddore virale, e a volte possono determinare gastroenteriti. Il virus responsabile della Sars è la prova di come possano avvenire “mutazioni” nel patrimonio genetico del virus d’origine, che attacca una determinata specie animale.  Queste trasformazioni rendono il virus in grado di generare una malattia anche nell’uomo.

A confermare il salto di specie è stata la zona di partenza dell’epidemia, che sembra riconducibile alla già citata regione cinese del Guandong, dove già si sono originate “nuove” infezioni. Nel meccanismo di insorgenza della Sars è stato ipotizzata anche una sorta di combinazione/collaborazione tra diversi agenti, che supererebbe la semplice azione del virus. C’è infatti chi pensa ad un’azione combinata con un altro elemento, ad esempio un altro virus oppure un germe come la clamidia. Non si sa ancora come potrebbe essere nata questa alleanza, anche se c’è chi ipotizza che il virus stancherebbe il sistema immunitario dell’organismo mentre il suo invisibile alleato attaccherebbe a fondo il corpo del paziente,

Cosa ha insegnato l’’influenza aviaria

La storia, per fortuna, non è andata avanti molto. Ma ripercorriamo il passato. Pranee Thongchan, morta a ventisei anni, è stata probabilmente il “paziente zero” dell’influenza aviaria. tenuta sotto osservazione nel sud est asiatico da alcuni anni. Nel suo caso il virus AH5N1 responsabile della malattia nei volatili avrebbe infranto la barriera di specie passando direttamente da un essere umano all’altro.

La cronistoria del contagio  non sembra lasciare dubbi. Pranee sarebbe stata infettata mentre era al capezzale della figlia Sakuntala, morta dopo aver maneggiato pollame deceduto per l’epidemia influenzale. Dopo una decina di giorni dai funerali della figlia anche Pranee è morta, pur non essendo mai entrata in contatto con polli malati, ma semplicemente soffermandosi a lungo vicino a Sakuntala per assisterla.

Nel tentativo di smorzare l’allarme creato nel mondo da questo primo caso di contagio interumano i dirigenti dell’OMS nel paese asiatico hanno affermato che è stato necessario un lungo contatto tra madre e figlia, con i volti che quasi si sfioravano.  La storia di Pranee Thongchan è stata uno degli elementi che più aveva preoccupato gli esperti che temevano una pandemia influenzale. La vicenda della povera donna era infatti giunta dopo che è stato identificato il virus H5 N1 nel maiale, tradizionale animale “ponte” per il salto di specie da volatili a uomo perché capace di albergare al suo interno sia virus dell’influenza umana che quelli della forma aviaria e quindi di favorirne il “rimescolamento” genetico tanto temuto.

Il vero problema che si temeva era che il virus avrebbe potuto essersi modificato adattandosi alle caratteristiche genetiche umane proprio passando attraverso il maiale dove è avvenuto il “cocktail” genetico virale che ha dato il via a due pandemie del secolo scorso, l’asiatica  del 1957 e la Hong Kong del 1968. L’umanità, come accaduto con la “spagnola” del 1918 legata invece ad un “riassortimento” dei virus all’interno dell’essere umano, si era trovata di fronte ad un ceppo influenzale completamente nuovo, sconosciuto ad un sistema immunitario incapace di reagire, quindi moltissime persone si erano ammalate e tanti furono i morti.

Fonti bibliografiche

Pandemia, Enciclopedia Treccani

OMS, le fasi dell’allerta pandemica, Istituto Superiore di Sanità

Malattia X, Dottore ma è vero che?