Infarcimento grasso. Infezioni. Tumori. E soprattutto, sindrome metabolica. Il fegato è esposto ad una serie di insidie che possono minarne il benessere. E va protetto, a partire dalla sana alimentazione. Il messaggio rimbalza ancora più forte, considerando l’elevato numero di persone che a tutte le età soffrono di problemi legati all’organo, in occasione della Giornata Mondiale del Fegato, che si celebra il 19 aprile.
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Il valore del calo di peso per il metabolismo
Per fronteggiare la sindrome metabolica, le armi migliori restano la perdita di peso e uno stile di vita sano. Come ribadito al XXXI Congresso nazionale delle Malattie Digestive, promosso dalla Federazione Italiana delle Società delle Malattie dell’Apparato Digerente (FISMAD) recentemente tenutosi a Roma, la sindrome metabolica è l’insieme di condizioni mediche in grado di aumentare significativamente il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2 e altre gravi patologie, oltre ad essere la principale causa di cirrosi epatica.
“Non esiste una terapia specifica contro la sindrome metabolica, a parte il consiglio di seguire la dieta mediterranea ed un corretto stile di vita, basato sul controllo del peso corporeo e sulla regolare attività fisica – commenta Gianluca Svegliati Baroni, Professore Associato in Gastroenterologia all’Università Politecnica delle Marche e responsabile della struttura dipartimentale Danno Epatico e Trapianti presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria delle Marche di Ancona”.
Agire sul peso in eccesso è importante. Per il danno epatico legato alla sindrome metabolica, è dimostrato che la perdita fra il 7 e il 10% del peso corporeo porta alla risoluzione delle anomalie istologiche.
“La maggior parte delle malattie epatiche – evidenzia l’esperto – è legata a fattori metabolici e all’alcol, con un potenziale di prevenzione significativo attraverso il cambiamento delle abitudini. Inoltre, è stato calcolato che circa 2 milioni di persone muoiono ogni anno a livello globale a causa delle malattie di fegato e che il 90% di queste patologie potrebbe essere curato semplicemente modificando lo stile di vita”.
Dal grasso alla sindrome metabolica
La “pancetta”, può essere il parametro chiave per capire che qualcosa non funziona a dovere e che l’organismo è messo a dura prova, ed anche a rischio. In particolare, si rischia di più la steatosi o la steatoepatite, con un impatto pesante sul benessere dell’organo. Normalmente circa il 5 per cento degli epatociti, le cellule del fegato, contengono grasso. Nel caso del fegato grasso la percentuale è superiore”.
Studi recenti indicano che l’infarcimento lipidico del “laboratorio” del corpo umano potrebbe avere anche una componente scritta nel Dna di ognuno. È stato infatti osservato che il gene responsabile dell’adiponutrina, favorirebbe una forte predisposizione ad avere il fegato grasso. Anche per questo motivo in particolari gruppi, come tra gli obesi o in chi soffre di diabete, la presenza del tessuto adiposo all’interno del fegato raggiungerebbe anche percentuali da record, superando il 70-80 per cento.
Ma attenzione. Sono le abitudini sane che, alla faccia della predisposizione, consentono di rispondere a dovere alla situazione. Per un’alimentazione corretta, l’ideale rimane affidarsi alla dieta mediterranea, che è povera di grassi saturi, di formaggi, salumi, dolci, mentre è ricca di frutta, verdura, legumi, pesce. È poi ovviamente indispensabile una riduzione delle calorie nel caso in cui il soggetto sia sovrappeso. Infine, anche se la pigrizia sembra dominare, ricordiamoci l’importanza del movimento. Conviene avere questi approcci.
Perché avere la “ciccia” nascosta tra le pieghe del fegato, infatti, significherebbe che si è portati a soffrire della sindrome metabolica, una sindrome caratterizzata da sovrappeso/obesità, diabete, ipertensione, aumento dei trigliceridi, riduzione del colesterolo buono o Hdl. Per questo motivo nei pazienti con steatosi epatica deve essere valutato se vi sia ipertensione, dislipidemia, intolleranza glucidica/diabete.
Tra i meccanismi che si creano in caso di steatosi epatica infatti c’è anche la resistenza all’insulina, condizione che porta il pancreas a produrre più insulina per mantenere la glicemia nella norma e questo a lungo andare causa diabete. I pazienti con fegato grasso hanno un rischio di sviluppare il diabete tre o quattro volte superiore rispetto a chi non ne soffre, e il diabete gioca poi un ruolo chiave nello sviluppo dei problemi vascolari.
Metabolismo in tilt e cresce il rischio tumore
Il carcinoma epatocellulare è il tumore primitivo maligno del fegato più frequente e costituisce una delle principali cause di morte per cancro a livello mondiale. Come emerso nel corso del Congresso nazionale delle Malattie Digestive di Roma, in Italia nel 2023 sono state stimate circa 12.200 nuove diagnosi di tumore epatico, con un tasso incidenza/letalità ancora vicino all’unità, a segnalare come questa neoplasia sia spesso diagnosticata in fase avanzata e pertanto difficilmente curabile. Attualmente, nel nostro Paese, si stima che oltre 33.000 persone vivano dopo una diagnosi di tumore del fegato.
Il carcinoma epatocellulare insorge quasi esclusivamente in soggetti affetti da epatopatia cronica, in particolare nei pazienti affetti da cirrosi epatica di diversa natura – tra cui, virus da epatite B e C, abuso alcolico, e soprattutto la MASLD o malattia epatica associata a disfunzione metabolica. La steatosi epatica, condizione caratterizzante la MASLD, è attualmente una delle patologie più comuni nei Paesi occidentali, colpendo globalmente circa un terzo degli adulti e fino al 90% dei pazienti affetti da obesità, ipertensione arteriosa o diabete mellito tipo 2.
Da qui al 2040 in molti Paesi europei è previsto un aumento dei casi di carcinoma epatocellulare, e questo andamento. è principalmente attribuibile all’elevata assunzione di alcol, all’obesità e alle patologie ad essa collegate, in assenza di adeguati programmi di educazione a corretti stili di vita.
In questo contesto, “il ruolo dell’epatologo è centrale e strategico: una gestione specialistica e precoce delle epatopatie croniche consente non solo di abolire, o rallentare, la progressione della malattia epatica diminuendo il rischio di sviluppare il carcinoma epatocellulare, ma anche di porre in essere programmi di sorveglianza volti all’identificazione precoce del tumore, migliorando pertanto in modo significativo la prognosi dei pazienti – ricorda Edoardo G. Giannini, Professore Ordinario di Gastroenterologia all’Università di Genova.. L’ecografia addominale da eseguire ogni sei mesi, eventualmente associata al dosaggio dell’alfa-fetoproteina, rappresenta attualmente lo strumento di sorveglianza raccomandato per i pazienti a rischio di sviluppare il carcinoma epatocellulare”.
Come si scopre il tumore e cosa fare
L’esperto chiarisce il percorso di diagnosi e cura per i pazienti. “Quando, nel corso di programmi di screening e sorveglianza, viene identificata una lesione epatica sospetta, si deve procedere con esami di imaging di secondo livello – tomografia computerizzata o risonanza magnetica epatica con mezzo di contrasto – in grado di fornire elementi diagnostici fondamentali per la caratterizzazione della lesione e, nei casi dubbi, alla biopsia.
Negli ultimi anni, il tradizionale, rigido modello di classificazione è stato superato da un approccio più flessibile e personalizzato, sviluppato grazie ad autori italiani, che tiene conto non solo delle caratteristiche tumorali (numero, dimensioni e localizzazione delle lesioni) e della riserva funzionale epatica, ma anche delle comorbidità, dello stato generale del paziente e delle sue preferenze. In questo modo, la selezione dell’opzione più appropriata (chirurgica, locoregionale, sistemica o palliativa) avviene nell’ambito di un team multidisciplinare valutando le strategie disponibili in modo gerarchico, partendo da quelle a maggiore intento curativo per declinare progressivamente a quelle di controllo della malattia o di supporto sintomatico”.
Sul fronte delle cure, per i pazienti in stadio iniziale o con malattia localizzata, sono disponibili terapie potenzialmente curative, tra cui la resezione chirurgica, il trapianto di fegato o l’ablazione percutanea mediante radiofrequenza o microonde.
“Nei casi di malattia più avanzata, le opzioni includono trattamenti locoregionali come la chemioembolizzazione transarteriosa, oppure terapie sistemiche, tra cui i farmaci a bersaglio molecolare (sorafenib, lenvatinib) e l’immunoterapia (atezolizumab + bevacizumab, durvalumab + tremelimumab), con un progressivo miglioramento delle prospettive di sopravvivenza anche nei pazienti non candidabili a trattamenti curativi – riprende Giannini.
In tale contesto, sta acquisendo crescente rilevanza anche il concetto di terapia di conversione, ovvero l’impiego mirato di trattamenti sistemici o locoregionali con l’obiettivo di ridurre il carico tumorale e rendere potenzialmente eleggibili alla chirurgia o al trapianto pazienti inizialmente non candidabili a trattamenti curativi”.