Ci sono buone notizie nell’eterna sfida al dolore cronico, nelle sue infinite sfumature che spesso nascono dalle patologie che lo generano. Perché questa forma di dolore non è solo conseguenza di patologie tumorali. A volte si può manifestare nel percorso di malattie neurologiche o reumatologiche, o ancora essere la conseguenza principale di condizioni come l’emicrania o la fibromialgia. Insomma, c’è molto da fare.
Ma la scienza avanza. E in futuro, non solo i farmaci ma anche la tecnologia potranno aiutarci. È il messaggio che viene dal congresso ‘Pain Medicine, a long journey’ sostenuto anche da Fondazione Menarini.
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Il dolore, da segnale d’allarme a malattia
Se parliamo del dolore, dobbiamo prima di tutto fare il punto sulla definizione. E dobbiamo capire che se non provassimo dolore, saremmo profondamente malati e a rischio. Perché alla fine il dolore è un meccanismi di difesa, come conferma Pierangelo Geppetti, presidente del Comitato Scientifico di ‘Pain Medicine’ e professore emerito di Farmacologia Clinica dell’Università di Firenze.
“Può sembrare un paradosso, ma la vita non sarebbe possibile senza il dolore, perché è un prezioso segnale d’allarme che ci impedisce, ad esempio, di ustionarci una mano sul fuoco – spiega. Il segnale di allarme però è caratteristico del dolore ‘acuto’, magari intenso ma breve. Problemi, anche gravi, subentrano invece quando il dolore diventa cronico e persistente, a volte anche a guarigione avvenuta.
È un po’ come l’antifurto di una macchina che non si riesce più a spegnere anche quando i ladri sono ormai in fuga. In questo caso il dolore diventa ‘malattia’, un problema a sé stante, che può interferire con la qualità di vita e divenire invalidante”.
La buona notizia è che oggi abbiamo a disposizione tante soluzioni terapeutiche sia per fronteggiare il dolore acuto, che quello cronico. “Le conoscenze oggi a nostra disposizione – fa sapere Giustino Varrassi, presidente del Comitato Organizzatore di ‘Pain Medicine’ e presidente della Fondazione Paolo Procacci – sono infinitamente superiori a quelle che avevamo 50 anni fa. Oserei affermare, in modo forse più sentimentale che scientifico, che, nell’ambito della medicina del dolore, il progresso scientifico è stato di molto superiore a quello registrato in tanti altri campi della medicina. E nel corso dei prossimi anni, avremo a disposizione soluzioni terapeutiche sempre più innovative, anche grazie all’introduzione delle nuove tecnologie (intelligenza artificiale, bioingegneria, sensori indossabili e altro)”.
Farmaci antidolore acuto e cronico in studio
La ricerca, in caso di ipersensibilità agli stimoli meccanici, termici e chimici, tipica del dolore cronico, ha identificato un nuovo ruolo per le cellule di Schwann, cioè quelle cellule che avvolgono, nutrono e proteggono i nervi periferici che conducono le sensazioni dolorifiche (nocicettori).
Le cellule di Schwann sono, infatti, dei modulatori della sensibilità dei nocicettori, producendo allodinia (uno stimolo innocuo diventa doloroso) ed iperalgesia (uno stimolo doloroso diventa ‘molto’ doloroso) in vari tipi di dolore (es. oncologico, neuropatico, emicranico ed infiammatorio), rendendo quindi queste cellule un bersaglio terapeutico di grande interesse per curare il dolore con efficacia e sicurezza. Ma non basta.
Stiamo andando oltre i classici rimedi come la morfina, il paracetamolo o l’acido acetilsalicilico. Nell’ambito del dolore acuto (in particolare quello post-operatorio), l’ultima novità è rappresentata dalla suzetrigina, il primo analgesico non oppiode approvato dall’FDA negli ultimi vent’anni per questo tipo di dolore. Si tratta di un inibitore selettivo del canale per il sodio, NaV1.8, che agisce sui nocicettori. Oltre ad essere molto efficace, questo farmaco non espone al rischio di dipendenza, invece tipico degli oppiodi.
La nuova molecola è adesso al vaglio di nuovi studi di fase 3 per il possibile impiego in altri tipi di dolore, come quello da neuropatie periferiche o da radicolopatie lombo-sacrali. Sempre per il dolore acuto, un’altra novità è rappresentata dal cebranopadol (un doppio agonista recettoriale MOP e NOP), attualmente oggetto di uno studio di fase 3, nel dolore cronico; l’FDA ha da poco concesso la designazione fast track per il trattamento della lombalgia.
Nel campo della fibromialgia, la novità è rappresentata dal riposizionamento di un vecchio farmaco miorilassante, la ciclobenzadrina sublinguale, di recente approvata dall’FDA per il trattamento di questa condizione. Si tratta della prima terapia approvata per la fibromialgia, resa disponibile negli Usa negli ultimi 15 anni. Infine, una delle ultime novità sul fronte della ricerca è rappresentata dalla scoperta del gene SCL45A4, associato al dolore cronico; le persone portatrici di una variante di questo gene hanno una percezione maggiore del dolore.
In molte condizioni caratterizzate da dolore cronico, i nocicettori sono iperattivi e inviano eccessivi segnali di dolore al cervello; non è chiaro cosa provochi questa disfunzione che però sembra essere legata ad alterazioni dell’attività delle poliamine, mediatori prodotti dal nostro organismo ed implicati in varie attività fisiopatologiche. La modulazione dell’attività del gene SLC45A4 che codifica per un trasportatore neuronale delle poliamine potrebbe aprire la strada a nuove terapie contro il dolore cronico.
Speranze dalla tecnologia
Ma la terapia del dolore del terzo millennio non si avvale solo di farmaci: oltre agli stimolatori midollari (neurostimolatori) già utilizzati per la terapia del dolore cronico (soprattutto neuropatico), che non risponde ad altri trattamenti, anche l’intelligenza artificiale, la realtà virtuale e alcuni dispositivi digitali si stanno imponendo sempre più nella lotta contro il dolore. In particolare la bioingegneria sembra trovare sempre maggiore spazio nel trattamento delle sindromi dolorose dell’apparato locomotore, come quelle molto frequenti, a carico dell’anca e del ginocchio.
Indossare un esoscheletro consente infatti di alleggerire il carico su queste articolazioni, facendo tornare le persone a camminare senza dolore. “Per patologie frequentissime come il ‘mal di schiena’, in campo diagnostico – ricorda Giustino Varrassi – tecnologie come i sensori inerziali indossabili o i sistemi di cattura del movimento tridimensionale (coadiuvati dall’elettromiografia di superficie e dalla modellazione biomeccanica) possono fornire preziose informazioni quantitative sulla postura, sul movimento e sull’attività muscolare.
Sul fronte terapeutico, esoscheletri robotici, stimolazione elettrica neuromuscolare, riabilitazione basata sulla realtà virtuale e piattaforme di tele-riabilitazione trovano sempre maggiore spazio nei protocolli di trattamento multimodali integrati. Queste tecnologie portano il trattamento del dolore nella dimensione della medicina di precisione, adattando gli interventi al profilo biomeccanico e funzionale di ogni singolo paziente. E in futuro, i ‘digital twins’ consentiranno infine di effettuare simulazioni di trattamenti personalizzati, valutandone e prevedendone i possibili risultati”.