Viviamo così, in un limbo sospeso tra ansia, stress e impegni professionali, gli stessi che utilizziamo per riempire la nostra vita con l’illusione che più siamo impegnati, più valiamo come persone. Perché ci hanno insegnato che è il lavoro a definire la nostra identità, a garantirci quel posto nella società, e noi ci abbiamo creduto.
Perché poi è vero che il lavoro nobilita l’uomo, e questo non possiamo negarlo. Ma non possiamo far finta di vedere come, troppo spesso, quello stesso lavoro ci annulla, allontanandoci dai legami, dalle passioni, privandoci del nostro tempo e dei nostri spazi.
La verità è che siamo schiavi di quel mito della produttività che negli anni si è trasformato in una prigione sempre più soffocante. Lo sappiamo che lì fuori c’è un mondo che ci aspetta, pieno di persone, esperienze e di opportunità, eppure abbiamo smesso di frequentarlo. Eppure abbiamo smesso di viverlo.
La schiavitù del lavoro
Lo aveva capito tempo fa anche Charles Bukowski che la carriera non sempre fa rima con felicità. Certo ci sono le soddisfazioni e quelle sono innegabili, così come c’è la gioia degli obiettivi raggiunti dopo aver lavorato duramente per ottenerli. Ma che succede quando tutta questa fatica va a discapito dei propri sogni, delle relazioni, del nostro tempo?
Succede che diventiamo schiavi delle aspettative degli altri, di tutti quelli che ci chiedono che lavoro facciamo per sapere chi siamo nella vita, per sapere in che posto posizionarci nei gradini della società. Ma per quanto la professione piò essere importante, e tante volte anche caratterizzante, non rappresenta la nostra identità.
Charles Bukowski, dicevamo, lo aveva capito in tempi non sospetti, quando nel 1969, all’età di 49 anni, scelse di lasciare il suo lavoro per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. Da una parte aveva un ruolo sicuro all’interno di un ufficio postale, dall’altra un rischio enorme: quello di lasciare tutto per trasformare la sua passione in un lavoro.
E non sappiamo se Bukowski fu in qualche modo ispirato da un celebre aforisma, quello che dice “Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neppure un giorno in tutta la tua vita”. Fatto sta che lo fece, scelse di diventare un uomo libero e di abbandonare quel lavoro che si era trasformato in una schiavitù per diventare il padrone della sua vita.
Sconsiderato, leggero, avventato e incauto: dovette sembrare proprio così, Bukowski, agli occhi di chi lo conosceva, a chi lo guardava mandare all’aria la sicurezza e il suo lavoro per inseguire la libertà. Ma quello che non vedevano gli altri è che mai, prima di allora, era stato così felice.
«Avevo solo due alternative – restare all’ufficio postale e impazzire… o andarmene e giocare a fare lo scrittore e morire di fame. Decisi di morire di fame»
La lettera di Charles Bukowski che parla di coraggio e di libertà
«Chiamano quella vita “dalle 9 alle 5” ma quel tipo di lavoro non è mai dalle 9 di mattina alle 5 del pomeriggio. Non hai la pausa pranzo in quei posti, perché gli altri dipendenti, temendo di perdere il lavoro, preferiscono non farla. E poi ci sono gli straordinari e i registri non sembrano mai dire davvero quanto tempo ti sei fermato in più. E se ti lamenti di tutto ciò, ci sarà un altro sfigato come te pronto a prendere il tuo posto.
Conosci il mio vecchio detto? “La schiavitù non è mai stata abolita, si è semplicemente estesa a tutti i colori della pelle”. Ciò che mi fa male è vedere la decadenza costante di questa umanità che lotta per tenere lavori che non vuole ma ha troppa paura dell’alternativa. Le persone sono vuote. Sono semplicemente corpi pieni di paure, con menti obbedienti. Non hanno più colori negli occhi. Le loro voci diventano orrende. E così i loro corpi. I capelli, le unghie, le scarpe. Tutto diventa orrendo.
Da ragazzo non potevo credere che le persone scambiassero le loro vite per quelle condizioni. Da vecchio uomo che sono oggi, non riesco ancora a crederci. In cambio di cosa accettano una vita del genere? Il sesso? La televisione? Un’automobile a rate? Avere dei figli? Figli che avranno la loro stessa misera vita?
Tanti anni fa, quando ero giovane e passavo da un lavoro all’altro, ero così ingenuo che a volte volevo conversare con i miei colleghi: “Hey, ma vi rendete conto che da un momento all’altro il capo può entrare qui dentro e mandarci tutti a casa?” Loro mi guardavano. Per loro rappresentavo un pensiero che non volevano entrasse nella loro testa. Ora nel mondo del lavoro ci sono licenziamenti di massa. Centinaia di migliaia di persone si ritrovano senza un lavoro e sono sconvolti.
“Ho dedicato a quel lavoro 35 anni della mia vita…”
“Non è giusto”
“Non so cosa fare”
La verità è che gli schiavi non vengono mai pagati abbastanza per potersi liberare. Vengono pagati il giusto per poter sopravvivere ed essere costretti ad andare a lavorare ogni giorno. Io vidi tutto questo. Perché gli altri non ci riescono? Immagino che per me la panchina del parco o il bancone del bar andassero già bene. Perché non finire subito lì? Perché aspettare che mi togliessero il lavoro?
È stato un sollievo enorme uscire da quel sistema di merda. E ora che sono qui, un cosiddetto scrittore professionista, dopo aver ceduto i primi cinquant’anni della mia vita, mi rendo conto con ancora più lucidità di quanto sia disgustoso.
Ricordo una volta, lavoravo in un’azienda di imballaggi. A un certo punto uno degli altri operai ebbe una crisi e disse ad alta voce: “Io non sarò mai libero!” Passò uno dei capi lì vicino (si chiamava Morrie) e fece una risata orribile, godendo del fatto che quell’uomo era intrappolato per tutta la sua vita.
Ho avuto la fortuna di scappare da quei posti e non importa quanto ci ho messo: mi ha donato una forma di gioia che ha il sapore del miracolo. Ora scrivo con una mente vecchia dentro un corpo vecchio, ben oltre quell’età in cui gli uomini pensano di poter ancora scrivere. Ma visto che ho iniziato così tardi, lo devo a me stesso: devo continuare.
E quando le parole diventeranno indistinguibili e avrò bisogno di qualcuno che mi aiuti per fare le scale e non riuscirò più a distinguere un uccellino da una clip in metallo, sono sicuro che comunque ricorderò bene come sono uscito dal massacro della vita in fabbrica per riuscire almeno a morire in modo generoso. Non aver sprecato interamente la mia vita mi sembra un gran bel successo».