Denunciare serve ma non basta, la vergogna del caso Phica. I responsabili: “A presto”

Dal caso Phica.eu alle denunce delle politiche e delle influencer, l’Italia affronta la nuova frontiera della violenza digitale sulle donne

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Francesca Secci

Giornalista, esperta di lifestyle

Sarda, ma anche molto umbra. Giornalista pubblicista, sogno di una vita, scrive soprattutto di argomenti di attualità, lifestyle e cura della casa.

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Ci risiamo. A pochi giorni dalla chiusura della vergognosa pagina Facebook denominata Mia Moglie, abbiamo un caso fin troppo simile. Phica.eu è stato l’ennesimo teatro della violenza online, dove, anche qui, la privacy delle donne è diventata spettacolo. Foto rubate, corpi trasformati in bersagli per dileggio.

Dopo centinaia di denunce, il sito è stato chiuso. Ma i suoi gestori si sono congedati con un agghiacciante “A presto”, come se nulla fosse.

C’è un chiaro problema di misoginia digitale e diseducazione. Denunciare serve, sempre. Ma non basta, sicuramente. E alle donne resta il compito di resistere in un territorio che continua a essere loro ostile.

Caso Phica.eu, denunce da tutta Italia contro le foto rubate

Ma partiamo dai fatti. La Polizia Postale sta raccogliendo denunce in tutta Italia da parte di donne che hanno scoperto proprie foto trafugate e pubblicate sul web a loro insaputa. Le indagini mirano a identificare i gestori delle piattaforme, le modalità del furto delle immagini e gli autori dei commenti sessisti e offensivi.

Questo fenomeno come sappiamo è vastissimo: il gruppo Facebook Mia Moglie contava oltre 30 mila iscritti e il forum Phica.eu quasi 200 mila.

Su questo forum si era formata una comunità tossica di migliaia di utenti che condividevano foto di donne, anche prese dai social, bersagliandole con commenti volgari e fuori luogo.

Persino la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e la segretaria PD Elly Schlein si sono ritrovate esposte sulle pagine di Phica, insieme ad altre parlamentari di diversi partiti.

Politiche e influencer italiane vittime di sessismo online: i nomi coinvolti

Le prime denunce sono partite dalle stesse vittime. L’eurodeputata Alessandra Moretti e la consigliera regionale Valeria Campagna (PD Lazio) hanno scoperto le proprie foto su Phica e presentato denuncia, decise a farlo non solo per sé ma per tutte le donne colpite. A ruota le hanno seguite altre parlamentari come Alessia Morani e Lia Quartapelle. Alcune vittime hanno parlato apertamente di una “cultura dello stupro” per descrivere questa deriva.

Anche il mondo dello spettacolo e dei social non è rimasto immune. Anche Chiara Ferragni si è ritrovata accanto a nomi come l’attrice Paola Cortellesi, coinvolte senza consenso in questo circuito tossico. Denunce e prese di posizione sono arrivate anche da ex protagoniste di Uomini e Donne come Chiara Rabbi, e dal duo musicale Opposite (Camilla Ronchetti e Francesca Basaglia), che hanno rilanciato una petizione per chiudere definitivamente la piattaforma.

Perché denunciare non basta: serve una svolta culturale sul web

Le denunce delle vittime, pur indispensabili, da sole non riparano i danni né eliminano le sacche di misoginia che proliferano sul web. Il caso Phica.eu e Mia Moglie lo dimostra in modo lampante: dopo una pioggia di querele, il sito è stato chiuso. Ma non per un senso di responsabilità. I gestori hanno gettato la spugna dicendo, in sostanza, che non riuscivano a controllare i comportamenti tossici degli utenti. E poi, come se non bastasse, hanno salutato con un sinistro “A presto”.

È questo il vero nodo: oggi chi denuncia fa bene, ma rischia di combattere una guerra con armi spuntate. Servono leggi più efficaci, indagini che si muovano alla stessa velocità di internet, e soprattutto un cambiamento culturale profondo che non lasci soli chi subisce, e che impari finalmente a isolare e condannare chi alimenta queste pratiche miserabili.

Perché è una violenza prendere foto che già si trovano online

A molti pare normale dire: “Se la foto è già su Instagram allora posso prenderla e metterla su qualsiasi forum”. Una scusa comoda, ma velenosa. Fa finta di non vedere la differenza, enorme, abissale, tra condividere qualcosa nel proprio spazio, con il proprio contesto e le proprie intenzioni, e subirne l’esproprio per fini che nulla hanno a che vedere con il consenso.

Non è difficile da capire, ma l’analfabetismo emozionale e il cinismo digitale ama giocare a fare il tonto: come se il solo fatto che un’immagine sia visibile equivalesse a dire che è disponibile. No, non lo è.

Il consenso non è un bagaglio che viaggia con il file. Non si trasferisce, non si eredita, non si presume. E soprattutto, non sopravvive al gesto violento di chi strappa un contenuto dal suo contesto e lo trasforma in strumento di offesa o umiliazione.