La stanza anti aborto e quel giudizio che pesa sulle donne

Doveva essere un luogo deputato all'ascolto, al confronto, all'aiuto. E invece la stanza anti aborto è diventata un sinonimo di violenza e dolore

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Redazione

DiLei è il magazine femminile di Italiaonline lanciato a febbraio 2013, che parla a tutte le donne con occhi al 100% femminili.

Credete che sia facile? Lo chiediamo a voi che leggete, lo chiediamo a voi che, magari, siete proprio delle donne. Credete che sia così semplice sapere che all’interno del proprio corpo si muove qualcosa, che si sta preparando per creare la vita, e decidere di non andare avanti? No, non lo è. Non lo è per alcuna donna, non lo è per nessuna di noi: ma l’aborto è un diritto, l’aborto è una scelta. Perché ognuna di noi ha la facoltà di scegliere sul proprio corpo, deve averla. O forse, dovrebbe. Perché ci sono luoghi dove non è così.

E no, non bisogna neanche guardare troppo lontano. Perché se già, spesso e (non) volentieri ci si ritrova di fronte a chi fa ostruzionismo, a medici obiettori, a chi crede di sapere cos’è meglio per noi, adesso c’è anche qualcosa di peggio proprio qui, in Italia: la stanza anti aborto. Nata come “stanza per l’ascolto“, questo spazio si è rivelato un incubo per le donne che ne hanno varcato la soglia. E forse è il caso di chiedersi davvero qual è la direzione verso cui stiamo andando.

La nascita della “stanza per l’ascolto”

C’era una volta: inizia così il nostro racconto, ma di sicuro non stiamo raccontando una favola. C’era una volta l’iniziativa di aprire, all’interno degli ospedali, una serie di stanze per l’accoglienza e per l’ascolto, con l’obiettivo di prestare orecchio alle donne che prendono la delicata decisione di ricorrere all’aborto e all’interruzione volontaria di gravidanza. Sulla carta, l’idea poteva anche essere virtuosa: se alcune di noi sanno già cosa vogliono, altre vivono un tormento molto profondo che è bene affrontare rivolgendosi a dei professionisti.

Professionisti, appunto. Che però, non esistono all’interno di queste stanze, che vengono spesso date in gestione ai movimenti Pro Vita, dunque nettamente contrari alla scelta dell’aborto. L’ultima stanza, quella aperta a Torino, è stata affidata alla Federazione Movimento per la Vita, che aveva subito chiarito le sue intenzioni: l’obiettivo della stanza è quella di «fornire supporto e ascolto a donne gestanti che ne abbiano necessità, nell’ambito di un più generale percorso di sostegno durante e dopo la gravidanza alle donne che vivono il momento con difficoltà e che potrebbero quindi prendere in considerazione la scelta dell’interruzione di gravidanza o che addirittura si sentono costrette a ricorrervi per mancanza di aiuti».

I colloqui all’interno della stanza

Non, dunque, aiutare e indirizzare in maniera oggettiva le donne, ma collegare la scelta dell’aborto a un momento di difficoltà o di costrizione. Non interpretarlo come una scelta libera, ma come un problema, come qualcosa da evitare, da aggirare, per riportare la gestante sulla “retta via”. E in effetti, in base alle testimonianze che hanno affollato i quotidiani, è esattamente questo quello che è successo: le donne che sono entrate nella stanza si sono ritrovate di fronte a persone giudicanti, che hanno subito e a priori condannato la loro scelta.

Diverse donne hanno parlato di interrogatori e pressioni psicologiche: vere e proprie forme di violenza, che non dovrebbero essere tollerabili. Eppure, passano quasi inosservate, anche agli occhi di chi in quegli ospedali lavora: perché l’aborto non è un reato, ma in Italia viene trattato come tale, ancora oggi. Ed è questo che vogliamo continuare a fare? Aggiungere dolore al dolore?

Libere scelte e violenza

In relazione a quanto accaduto a Torino, è di base già impensabile che una stanza così particolare sia stata affidata a un’associazione che è da sempre schierata contro la legge 194 e che si batte per abolire le libere scelte. È inevitabile che, con questo tipo di gestione, la stanza diventi uno spazio dove a regnare sono giudizi violenti, opere di dissuasione e colpevolizzazione. L’ultima domanda che dobbiamo porci, dunque, è ancora questa: ne abbiamo bisogno? È davvero questo ciò che vogliamo vivere, ancora e ancora?