Aborto, la Francia festeggia e l’Italia riflette: perché è ancora un diritto a metà

L'Interruzione Volontaria di Gravidanza entra nella Costituzione francese. La Francia stabilisce un primato e l'Italia si interroga

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Giorgia Prina

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La Francia è il primo paese al mondo a costituzionalizzare l’aborto. Sono passati cinquantatré anni da Le Manifeste des 343, una dichiarazione, pubblicata il 5 aprile del 1971 dalla rivista Nouvel Observateur in cui trencentoquarantatré donne ammettevano di aver abortito, esponendosi personalemente alle conseguenze penali di tale ammissione. All’epoca, in Francia, vigeva la legge del 1920. Questa puniva con pene fino a sei anni di reclusione chi avesse abortito o procurato aborti.  “Ogni anno in Francia, abortiscono un milione di donne”, cita il testo del manifesto, redatto da Simone De Beauvoir, “Condannate alla segretezza, sono costrette a farlo in condizioni pericolose quando questa procedura, eseguita sotto supervisione medica, è una delle più semplici”. E concludeva: “Chiediamo l’aborto libero”. Ora la Francia lancia un “messaggio universale”, come lo ha definito il Presidente Emmanuel Macron. Ma proprio la voluta universalità porta a riportare lo sguardo verso di noi, verso l’Italia: qual è lo stato di salute della Legge 194, che, dal 1978, disciplina l’accesso all’Interruzione Volontaria di Gravidanza?

Aborto in Italia tra diritto e obiezione

“Come sta la 194?”. Questa la domanda che Chiara Lalli e Sonia Montegiove si pongono nel saggio Mai Dati, del 2022. Una domanda importante, perché, come le autrici stesse evidenziano, “i dati ci servono per scegliere”. Per parlare dello stato di salute di una legge non ci si può appigliare a discussioni o ipotesi. Si parla di salute e di diritti, di possibilità di scelta e di futuro. Servono dati, solidi e strutturati, per capire quali possano essere gli interventi da effettuare sull’intero territorio. E, ci rivelano Lalli e Montegiove, i dati non ci sono. O meglio “sono chiusi, aggregati per Regione e vecchi”. Insomma, immaginando di voler sapere se in un ospedale si eseguono le interruzioni di gravidanza (perché sì, non in tutti gli ospedali si può abortire) o quanti ginecologi ci sono quanti di questi praticano l’Ivg, avere risposte non è sempre possibile.

Sono tanti gli ostacoli che una donna deve superare per poter abortire. La Legge del 1978 consente alla donna, nei casi previsti, di ricorrere alla IVG in una struttura pubblica (ospedale o poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza), nei primi 90 giorni di gestazione (tra il quarto e quinto mese è possibile ricorrere alla IVG solo per motivi di natura terapeutica). Ma la 194 lascia spazio a molto altro. In primo luogo all’obiezione di coscienza. Se ne è a lungo parlato in anni recenti, quando si sono andate delineando vere e proprie “strade migratorie” percorse da alcune donne (soprattutto del Sud Italia) in ospedali di altre Regioni per poter ricorrere all’aborto. Aveva fatto notizia lo morte dell’unico medico non obiettore del Molise, aveva fatto notizia la storia della donna che per motivi di salute abortì al quinto mese di gravidanza, che denunciò, in una conferenza stampa dell’associazione Luca Coscioni, di essere stata ricoverata all’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove le è stato indotto il parto, ma di essere stata poi abbandonata senza assistenza medica, perché in quel momento c’erano solo obiettori di coscienza di guardia al reparto. L’azienda sanitaria locale smentì la versione della donna, dichiarando invece di aver prestato assistenza, ma la miccia era stata accesa. Sono state stilate mappe sulla densità di obiettori di coscienza nelle diverse Regioni italiane e il quadro non è rassicurante.

Questo sembra dire la 194: l’Ivg è un servizio medico, ma che diventa senza troppa difficoltà una questione di coscienza. Coscienza del medico, si intende, perché la coscienza della donna che sceglie di abortire viene messa in dubbio da principio.

Fondi pro-vita e tendenze politiche

Da quando la Legge 194 è stata approvata, ma anche prima, i movimenti si sono divisi in “pro” e “contro” l’aborto, con centinaia di stratificazioni e differenze. La cornice in cui questi agiscono è quella politicizzata dei diritti. L’Italia in questa non è sola: i movimenti, sia “pro” che “contro” si articolano globalmente. Per questo ragionare sulla Francia ha senso solo se proviamo a guardare al nostro Paese. Comprendere un caso così segnante significa capire qualcosa di noi stessi. I nostri vicini d’Oltralpe solo arrivati alla costituzionalizzazione per processi storici e sociali molto diversi e in alcuni casi divergenti dai nostri.

Nel contesto italiano le politiche degli ultimi anni, evidenti sopratutto sul piano Regionale, hanno sovvenzionato e incoraggiato cambiamenti nei rapporti tra difensori e oppositori del diritto all’aborto, in chiave conservatrice. Semplificando questioni difficili da semplificare, possiamo vedere il campo dell’aborto sezionato in due: da una parte chi si batte perché l’accesso all’aborto diventi libero e fluido, dall’altra chi cerca modi, rimanendo all’interno della legge, per rendere più difficile il ricordo alla pratica abortiva, da una parte “diminuendo la domanda”, influenzando l’emanazione di leggi che impongano il consenso dei genitori per gli aborti in caso di minori, dall’altro imponendo periodi di attesa prima che le donne possano abortire.

Anche le istituzioni si muovono in un senso o nell’altro. Prendendo il caso specifico del Piemonte, a febbraio 2024 è stato confermato anche per l’anno corrente il fondo di un milione di euro per finanziare il fondo destinato al progetto Vita Nascente rivolto alle donne incinte in difficoltà economico-sociali. Quest’anno, però, la Regione Piemonte sosterrà anche corsi di formazione per le donne in gravidanza “a partire dai primi tre mesi di gestazione”. A gestire questi soldi saranno le associazioni Pro Vita il cui coinvolgimento ha giustamente suscitato forti polemiche.