Jacopo non andrà più a scuola: la scelta di Maria Grazia, mamma di un ragazzo autistico

Abbiamo parlato con Maria Grazia Fiore, mamma di un ragazzo autistico che si è vista costretta a ritirare suo figlio dalla scuola a causa di un sistema discriminatorio e non inclusivo

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Andando contro ogni principio di buon senso e di inclusione sociale, quest’anno Jacopo resterà a casa invece che andare a scuola. Ci siamo arresi alla scuola parentale. E’ una sconfitta del sistema, prima ancora che nostra, ma sempre sconfitta è. Tenerlo a casa per proteggerlo dalla scuola, con molta, molta amarezza, ma ci siamo giocati pezzi di salute e di benessere psichico troppo importanti in questi anni.
Brindiamo idealmente al sistema scolastico inclusivo “più bello del mondo”: noi ci siamo arresi. In bocca al lupo a chi resiste.

Inizia così la storia di Maria Grazia Fiore, o almeno una parte di quella che abbiamo conosciuto sul web, attraverso un post pubblicato sul suo profilo Facebook il 15 settembre. E non si tratta di un semplice sfogo, come qualcuno banalmente può pensare, ma una porzione di vita vissuta all’ombra di pregiudizi e discriminazioni che non possiamo ignorare.

Maria Grazia, che vive e lavora a Bari, è un’insegnante della scuola primaria, ma è prima di tutto la mamma di Jacopo, un ragazzo affetto di autismo non verbale che è diventato inevitabilmente il protagonista di una delle pagine più nere della scuola del nostro Paese.

Si perché Maria Grazia, come si legge dalle poche parole scritte in quel post su Facebook, si è vista costretta a ritirare suo figlio dalla scuola. Una scuola che si fa portavoce dei valori dell’inclusività che però poi sul piano operativo non sono applicati. E Maria Grazia, che vive e paga sulla sua pelle il prezzo di queste mancanze, sa bene lo scenario di cui parla, perché non lo vive solo come genitore, ma anche come insegnante.

È per questo che, quando l’abbiamo sentita, la prima cosa che ha sottolineato è che la sua non è una scelta, ma è stata piuttosto una resa momentanea. Che il fatto di aver portato via Jacopo dalla scuola è stata una decisione mossa dall’esigenza di preservare la dignità e il benessere di suo figlio.

La scuola, l’inclusività e l’ipocrisia

“Si tratta di una pausa, di una tregua, per permettere a Jacopo di stare bene. Perché lui è la vera vittima di questo sistema che non funziona”. Maria Grazia si racconta così, a noi, in maniera generosa e genuina per far sì che la sua voce non sia l’unica. Lo sa che non lo è, come ci ha detto lei stessa, dal momento in cui quella denuncia sociale è stata condivisa sui social, moltissimi genitori l’hanno contattata. Hanno visto in lei una voce capace di emergere dal coro e di farsi sentire per cambiare le cose, per trasformare davvero la scuola, e più in generale il nostro Paese, in un luogo inclusivo dove la diversità non deve essere più qualcosa di penalizzante.

Perché quello che è successo a Jacopo, che ora ha 16 anni, è una parabola dei tempi che stiamo vivendo, un periodo storico in cui è facile farsi portavoce di determinati valori sui social network, o su carta, salvo poi non trovare l’effettiva applicabilità nella vita quotidiana.

La scelta di Maria Grazia Fiore, quella di far restare suo figlio a casa, piuttosto che a scuola, nasce sostanzialmente dall’assenza di un sostegno reale o concreto, o peggio dalla presenza di insegnanti di sostegno che non sono affatto preparati sull’autismo. Succede così che, a seguito di una serie di episodi, una mamma sente il diritto e il dovere di intervenire concretamente, prima che di denunciare, per preservare il benessere di suo figlio. E così ha fatto Maria Grazia, che dopo tutta una serie di riflessioni, ha capito che l’unico modo per farlo era di allontanarlo dalla scuola.

E per una donna, che ha scelto consapevolmente per anni di essere un’insegnante, questa scelta si trasforma in una duplice sconfitta.

Ho sacrificato troppo Jacopo ai principi indiscutibili di un sistema inclusivo in cui ho sempre creduto come insegnante, prima di tutto” – ha detto Maria Grazia – “Questo sistema ci ha però rimbalzato. Ha fatto squadra contro la famiglia, perché è così che funziona. Vorrà dire che, comunque, continueremo a metterlo alla prova questo sistema ma dobbiamo tutelare Jacopo, costi quel che costi”.

Oltre i bei discorsi

Come abbiamo già anticipato, parlare di inclusività non mette a tacere un problema che diventa sempre più importante e ingombrante per tutte quelle famiglie che hanno un figlio autistico o affetto da disabilità. Perché la scuola, che dovrebbe essere l’istituzione di riferimento dei ragazzi e delle future generazioni, non è capace nel concreto di fornire il giusto sostegno a chi ne necessita e ne ha diritto. Ecco perché, oltre i bei discorsi, è necessario fare di più.

E quel di più non può essere sempre a carico delle famiglie, come è successo a Maria Grazia che, per tentare di trovare una soluzione di continuità per suo figlio, ha mandato a sue spese la sua educatrice domiciliare a scuola per affiancare gli insegnanti di sostegno e gli educatori. Neanche questo è servito, dato che Jacopo non solo non è stato supportato come doveva, ma anche perché è stato isolato in un’aula di sostegno e allontanato dai suoi compagni di classe. Episodi, questi, che hanno inevitabilmente minato il benessere del ragazzo e della stessa famiglia.

“La verità è che il sistema scolastico della scuola autorizza di fatto una discriminazione nel momento stesso in cui manca un’assistenza specializzata” – ci ha detto Maria Grazia – “Nel nostro caso specifico, nella scuola che frequentava Jacopo, nessuno sapeva cosa fare e nessuno aveva voglia di imparare“.

“Sono stati tanti, anzi tantissimi, i docenti di sostegno che si sono alternati, e già questo è frustrante, ma la cosa più grave è che nessuno di loro conosceva la comunicazione aumentativa, nessuno di loro sapeva come parlare con Jacopo. E questo, a mio avviso, è un ulteriore atto discriminatorio nei confronti di mio figlio”.

L’assenza di personale qualificato, inoltre, ha generato conseguenze inevitabili sulla gestione familiare. “Mi hanno sempre chiamato a ogni ora del giorno, proprio per la loro incapacità di gestione, perché non sapevano che fare. Lo hanno fatto anche mentre ero a lavoro, togliendomi di fatto il mio diritto al lavoro, perché devo pensare a mio figlio, perché devo essere disponibile sempre per lui”.

Maria Grazia ci ha raccontato che è stata costretta a prendersi un anno sabbatico per gestire l’intera situazione. Ed è certo che anche su questo argomento non si può far finta di niente, perché le famiglie dovrebbero essere dotate di tutti gli strumenti, di supporto e di assistenza, che invece sono sempre molto pochi, se non quasi totalmente assenti. Ed è proprio nel momento in cui mancano che la speranza di trovare nella scuola, e nelle istituzioni, un’ancora di salvataggio diventa preponderante, ma anche questa nulla.

La stessa Maria Grazia ci ha confermato che ci sono dirigenti che non sanno cos’è un GLO, che non lo organizzano, e dall’altra parte docenti che non vi partecipano. La consapevolezza di questo, unita a tutto ciò che è successo, ha fatto perdere immediatamente fiducia nella scuola, proprio quel luogo che dovrebbe prendersi cura di tutti i ragazzi.

“In tutti questi anni, ho voluto per Jacopo solo la normalità, una cosa che a tutti gli altri viene concessa. E a noi no. Perché la verità è che al momento l’inclusione è un guscio vuoto. Ma continuerò la mia battaglia, per me stessa e anche per gli altri”.