“Il 25 settembre di ogni anno, giunta l’alba, si ripete quello che per me rimarrà per sempre un incubo, o peggio, il ricordo orribile dell’uccisione di un figlio da parte di chi avrebbe dovuto proteggergli la vita”.
Le parole scritte da papà Lino su Facebook il 25 settembre del 2020 risuonano come un monito che non possiamo ignorare e accogliere, quello di raccontare la storia della morte di un ragazzo, quello di non dimenticarlo. Alle sue parole, ieri e oggi, ne sono sono seguite tante altre, attraverso le interviste, i documentari e i social network.
Sono le voci di chi Federico lo conosceva, di chi lo amava e di tutte quelle persone che nella sua ingombrante assenza cercano prepotentemente continuamente la sua presenza.
Il caso Aldrovandi
Aveva appena diciotto anni, Federico Aldrovandi, quando la sua vita è stata spezzata tragicamente. E chissà quanti sogni straordinari doveva ancora realizzare, lui che aveva tutto il diritto di vivere quella magnifica sensazione di poter dominare il mondo, quella che si prova alla sua età.
Eppure il 25 settembre del 2005 tutto è finito all’improvviso. Federico è stato ucciso da chi doveva proteggerlo, come ricorda il padre. Questo l’epilogo di uno dei fatti di cronaca più drammatici del nostro tempo.
Quella sera, il giovane ferrarese, aveva trascorso il suo tempo in compagnia degli amici di sempre in un locale di Bologna. Quella stessa notte gli amici lo riaccompagnano nei pressi della sua abitazione, non sotto casa però, ma a pochi passi da questa.
Quattro poliziotti giungono in via Ippodromo per un controllo. Ci sono le urla, il rumore violento di una colluttazione. Poi più niente. Federico muore intorno alle 6 di mattina, dopo diversi tentativi di rianimazione da parte del personale medico. La famiglia sarà avvisata solo 5 ore dopo del decesso. La causa è apparentemente stabilita, il ragazzo è morto a causa di arresto cardio-respiratorio e un trauma cranico-facciale.
Federico aveva assunto delle droghe quella sera, questo può bastare a giustificare la sua morte? L’indagine medico legale conferma il contrario: la quantità di sostanze tossiche assunte non era sufficiente a causare un arresto respiratorio. Alla mamma Patrizia e a papà Lino basta guardare il corpo del loro figlio per sapere che non è così, per comprendere che quelle lesioni e quei lividi sul corpo nascondo un’altra verità. E per questa combattono.
Il 15 marzo la matassa inizia a sbrogliarsi, a essere indagati sono i quattro agenti della questura di Ferrara che si trovavano in via Ippodromo. Si tratta degli agenti Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani e Luca Pollastri. Sul luogo vengono ritrovati anche due manganelli spezzati che sono stati utilizzati sul corpo del giovane Federico. Ma c’è anche un testimone oculare, una donna che vive su quella strada, che conferma di aver visto due agenti picchiare il giovane.
Dopo un lungo processo, che ha coinvolto anche la stampa, le trasmissioni televisive l’opinione pubblica, la Corte di Cassazione emana la sua sentenza. È il 2009 quando arriva la conferma che la morte di Federico è stata causata dai quattro agenti indagati e poi condannati.
Oggi Federico vive nella memoria di chi non l’ha mai dimenticato. Nella Curva Ovest della Spal, nel Torneo Federico Aldrovandi e nei ricordi di papà Lino e mamma Patrizia.