Lavoro, perché sono sempre le donne a rimetterci?

I dati sull’occupazione dell’ultimo trimestre mostrano una situazione desolante per le donne, le più penalizzate dalla crisi: la Dottoressa Cristina Freguja dell'Istat ci spiega perché

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Redazione

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Il Covid è anche una questione di genere. Non tanto da un punto di vista clinico (non abbiamo le competenze per dirlo), quanto in ottica sociale. Qualche giorno fa l’Istat ha diffuso i dati sull’occupazione dell’ultimo trimestre del 2020, da cui emerge una condizione desolante: solo nel mese di dicembre su 101mila lavoratori che hanno perso il posto ben 99mila sono donne. Numeri devastanti, cui si fa fatica a credere. Ma al di là dello sgomento, la domanda che sorge immediata è perché? Perché sono le donne a rimetterci di più in questa crisi scatenata dalla pandemia? Lo abbiamo chiesto alla Direttrice della Direzione centrale per le statistiche sociali e il welfare dell’Istat Cristina Freguja.

Pandemia e lavoro, perché le donne sono le più colpite

“I dati del mese di dicembre non fanno che confermare una dinamica che, anche se in misura meno marcata, ha accompagnato tutto il periodo della crisi pandemica”, spiega. Alla luce dei dati raccolti, i motivi di tale evidenza sono diversi: “In primo luogo, le donne sono più spesso occupate in lavori precari e hanno potuto giovarsi meno del provvedimento che ha garantito il blocco dei licenziamenti; nei settori colpiti dall’emergenza sanitaria chi aveva un’occupazione a tempo determinato, come più spesso avviene per le donne, non ha avuto alcuna possibilità di mantenere il posto di lavoro a fronte della scadenza del proprio contratto, e più lungo si fa il periodo di crisi, più elevato è il numero di donne che incappa in questa situazione”, prosegue la Dott. ssa Freguja. Aspetto non da poco cui si aggiunge un ulteriore fattore: “le donne sono più spesso occupate nei settori di attività economica che hanno perso un maggior numero di posti di lavoro. Nell’84,1% dei casi le donne sono impiegate nel settore dei Servizi (contro 59,1% degli uomini) che è anche il settore che è stato investito più pesantemente dalla crisi sanitaria (- 646 mila occupati tra il III trimestre del 2019 e il III trimestre del 2020), includendo anche il commercio, gli alberghi e la ristorazione, attività che hanno patito di più le restrizioni dovute al lockdown”.

Occupazione maschile e femminile a confronto

Questi i due elementi principali, ma c’è dell’altro, perché, come spiega la Direttrice, “anche a parità di tipo di contratto o di settore di attività, l’occupazione femminile ha mostrato diminuzioni più marcate rispetto agli uomini, segnalando come le donne ricoprano comunque posizioni lavorative più vulnerabili. Ad esempio, le donne occupate con contratto a tempo determinato, tra il terzo trimestre 2019 e il terzo trimestre 2020, sono diminuite del 16,2%, valore che per gli uomini si è fermato al 12,4%. Particolarmente significativa è stata la perdita di occupazione per le attività del settore degli alberghi e ristoranti (-14,2% contro il 7,5% degli uomini) e del settore dei servizi alle famiglie (-9,8%), dove la componente femminile rappresenta l’87% dell’occupazione del settore”.

Una disparità che non riguarda solo le donne italiane: “una condizione di maggiore debolezza nel mercato del lavoro è condivisa anche dalle straniere residenti in Italia che, nel terzo trimestre 2020, hanno registrato una diminuzione del 9,1% rispetto a un anno prima, a fronte di un calo pari al 3,8% tra i lavoratori stranieri maschi”.

Le donne quindi sono maggiormente colpite da questa crisi anche perché lavorano per la maggior parte nei settori più gravemente colpiti (a differenza per esempio di quanto accaduto con la crisi finanziaria del 2008).

Questa differenza, però, merita un approfondimento ulteriore. Il motivo di una tale disparità tra occupazione maschile e occupazione femminile, che come abbiamo visto esisteva anche prima della pandemia, è da ricercarsi in vari fattori. Uno di questi è l’istruzione. O meglio, la scelta del percorso di istruzione.

Occupazione femminile, l’Italia tra gli ultimi in Europa

“L’istruzione è l’elemento principale su cui costruire la partecipazione al mercato del lavoro e alla vita sociale e culturale di una nazione e, nel nostro paese, il differenziale di genere nella quota di giovani laureati è ampiamente a favore delle donne: una giovane su tre è laureata, mentre lo è solo un giovane su cinque, un vantaggio superiore a quello medio europeo”, spiega Freguja.

Nonostante l’innalzamento del grado di istruzione della popolazione femminile, però, il livello raggiunto è ancora lontano da quello delle coetanee europee e non trova riscontro nei risultati occupazionali. “Nel III trimestre 2020 il tasso di occupazione femminile 15-64 si attesta al 48,5% (-1,5 punti rispetto a un anno prima), contro il 67,5% di quello maschile (-1,2 punti), collocandoci al penultimo posto della graduatoria europea, appena sopra la Grecia”.

Come mai? Uno spunto interessante è dato dalla permanenza di “un forte svantaggio femminile nelle lauree tecnico-scientifiche, le cosiddette lauree STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), corsi che generalmente si contraddistinguono per una maggiore occupabilità. Nel 2019, il 37,3% degli uomini laureati ha una laurea STEM contro il 16,2% delle donne laureate”.

L’Italia non è un Paese per donne

Infine, la nota forse più dolente, perché evidente a tutti e confermata dai dati. “A spiegare lo svantaggio delle donne nel mercato del lavoro è soprattutto il forte impegno nelle attività di cura e le difficoltà di conciliazione fra tempi di vita e lavoro. Bastano pochi numeri a testimoniarlo chiaramente: nel 2019, prima ancora che la crisi ci investisse, il tasso di occupazione delle donne senza figli tra i 25 e i 49 anni era pari al 71,9%. Questo valore scendeva al 53,4% in presenza di un figlio in età prescolare e arrivava al 34,1% tra le donne del Sud”. Non c’è da stupirsi quindi se i dati sulla natalità sono in costante calo negli ultimi anni e se sempre donne scelgono di non avere figli o di rimandare la maternità il più possibile finché non sentono di avere maggiori garanzie economiche.

“Tale evidenza si affianca a una carenza strutturale di servizi per la prima infanzia e a una distribuzione profondamente disomogenea sul territorio nazionale che continua a penalizzare molte regioni del Sud. Nell’anno educativo 2018/2019, l’offerta di posti nei servizi educativi per la prima infanzia (25,5% dei bambini sotto i 3 anni) si conferma al di sotto del parametro fissato già nel 2002 dal Consiglio europeo di Barcellona (33%) che si sarebbe dovuto raggiungere entro il 2010 e in alcuni regioni del Sud scende a valori minimi attorno al 10%”, conclude la Direttrice Freguja. Quest’ultimo dato è esemplificativo di una condizione che si protrae da anni e che la pandemia non ha fatto altro che esasperare e portare allo stremo. Lo smart working, tanto acclamato da più parti, per molte donne ha rappresentato un aumento delle ore effettive di lavoro non essendoci più un limite alla reperibilità e, specie nelle mamme, un sovraccarico insostenibile, con la gestione dei figli e della casa durante il lockdown, con tutti i disagi e le difficoltà che questo ha comportato. Da questa pandemia, però, si può imparare qualcosa. I numeri dimostrano che siamo a un punto di non ritorno: la situazione non può più essere ignorata. Va affrontata, seriamente e una volta per tutte.